John le Carré: è ora di chiamarlo scrittore | Segnali

La storia della spia perfetta

di Paolo Bertinetti

Quando nel 1986 uscì La spia perfetta di John le Carré, Philip Roth dichiarò che quello era il più bel romanzo inglese degli ultimi quarant’anni. Diciamo che Roth si fece prendere dall’entusiasmo; ma la sua “sentenza” si spiega con il fatto che La spia perfetta è da un lato la formidabile radiografia dello “stato della nazione britannica”; e dall’altro è un romanzo di scintillante originalità narrativa. La spia del titolo è Magnus Pym, un agente dei servizi segreti a fine carriera, che si nasconde in una pensioncina a scrivere la sua storia di agente e di traditore: era stato infatti per anni un double agent, una spia per conto dei servizi segreti cecoslovacchi. Magnus Pym scrive la storia della sua vita; ma il narratore della Spia perfetta scrive la storia di Pym che scrive la sua storia, gli affianca la sua narrazione, ne “corregge” le informazioni imprecise, la integra attraverso le pagine in cui il racconto è affidato al punto di vista della moglie Mary e del suo ex-collega Jack. In realtà le Carré scrive una sorta di metaromanzo che, senza voler scomodare Tristram Shandy, si avvicina alle soluzioni narrative care agli scrittori modernisti. La storia procede andando avanti e indietro nel tempo, dal presente al passato recente e lontano, sovrapponendo un racconto all’altro, intrecciando le ricostruzioni (non sempre affidabili) dei momenti cruciali della carriera di Magnus Pym.

La spia perfetta è una bella storia sullo spionaggio. Ma è anche una storia affascinante sulla società inglese, a partire dagli anni trenta fino alla fine degli anni settanta del Novecento, un acutissimo ritratto dei valori, dei pregiudizi, della supponenza della classe dominante britannica. Il ritratto è particolarmente efficace perché nasce soprattutto dalle sfumature del linguaggio, dai sottintesi, dai riferimenti allusivi, dai gesti e dagli sguardi con cui viene stabilito un sistema di riconoscimento tra i privilegiati dell’alta borghesia e di esclusione degli altri. Che Magnus Pym, che per estrazione sociale dei privilegiati non faceva parte, sapesse appropriarsene per diventare una spia perfetta (e in fondo vendicarsene) non sembra poi una grave colpa.

Già questo romanzo doveva far capire che le Carré non era un grande scrittore “di romanzi di spionaggio”, ma un grande scrittore tout court. A dichiararlo esplicitamente è venuta qualche anno fa la dichiarazione di Ian McEwan che indicava le Carré come uno dei maggiori romanzieri inglesi della seconda metà del Novecento e di questo inizio di millennio. È ora di smetterla, precisò, di considerarlo come uno scrittore “di genere” e di apprezzarne invece le straordinarie qualità di narratore che lo pongono al vertice della produzione letteraria contemporanea. È difficile che la nostra critica accademica concordi con McEwan, anche perché è molto forte da noi la messa al bando dei “generi”. Eppure, almeno in certi casi, sono proprio le griglie e i paletti narrativi imposti da un “genere” che consentono all’autore di raggiungere i risultati più alti: vale sempre l’aforisma di Paul Valéry, secondo cui l’arte vive di costrizioni e muore di libertà.

Per la verità le Carré, che dal 1959 al 1963 è stato agente dei servizi segreti, aveva come punti di riferimento non gli autori del genere spionistico, ma i due grandi narratori che di tale genere incorporarono gli schemi e le forme nella “letteratura”: Maugham e Greene. Da Maugham le Carré apprese la necessità di imporre un fermo ordine al racconto. E fece sua l’idea di procedere nella narrazione presentando i fatti dal punto di vista di un protagonista che ha e offre una visione parziale, al di là di quanto richiede la natura del genere spionistico, degli aspetti “tecnici” della sua indagine. Spesso le Carré aumenta poi la suspense proponendo al lettore successivi “rovesciamenti” rispetto alla soluzione conclusiva; e ciò avviene grazie al fatto che la missione procede senza che l’agente (e quindi il lettore) ne conosca gli elementi decisivi. La rivelazione, ad esempio, folgorerà Leamas, il protagonista di La spia che venne dal freddo (1963), molto tardi e non verrà resa nota al lettore – che a quel punto sa soltanto che Leamas sa e che lui dovrà aspettare ancora per sapere.

L’altro fondamentale punto di riferimento di le Carré fu Greene. I suoi protagonisti, come in Greene, sono spesso delle persone ordinarie, che trovano in fondo al proprio animo quell’integrità che neppure erano pienamente consapevoli di avere per opporsi a un potere cinico e spietato che brilla per disumanità. Nei loro confronti le Carré, come Greene, prova una sorta di compassione. In Greene, però, c’è l’idea di una misericordia divina e di una possibilità di contrastare il potere che in le Carré invece non riusciamo a trovare (se non leggendo i suoi libri come portatori di una negatività che adornianamente rimanda alla necessità di un mondo altro rispetto a quello del presente).

Nei romanzi scritti fino al 1990, le Carré ci faceva capire che agli agenti segreti che agivano nel contesto della guerra fredda era richiesto di dimostrare una fiducia, se non proprio una fede, nell’ideologia di facciata della difesa della democrazia contro il totalitarismo sovietico. La realtà, nel mondo degli apparati spionistici, era quella di una contrapposizione tra due poteri entrambi convinti dell’inaccettabilità dell’altro, entrambi convinti di dover combattere per la propria sopravvivenza che l’altro minacciava, entrambi disposti a qualsiasi iniquità affinché tale sopravvivenza potesse essere garantita. Per i contrapposti servizi le questioni morali e ideali non esistevano, erano soltanto una facciata buona per la propaganda. Il dubbio, suggeriva le Carré, è che fosse così anche per i loro governi.

Dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’Urss molti pensarono che le Carré non avrebbe più saputo che cosa e di che cosa scrivere, perché la guerra fredda era stata la fonte e la materia prima della sua invenzione narrativa. Non è stato così. La sua attenzione si è concentrata sull’Occidente e sulle sue malefatte: quelle dei colossi farmaceutici, delle banche truffaldine, delle multinazionali (che magari coltivano, come nel Nostro traditore tipo, segreti legami con la mafia russa). In realtà anche nei romanzi scritti prima del 1989 le Carré si preoccupava dei valori (del non rispetto dei valori) dell’Occidente. Ma una volta scomparsa la necessità di osservarli alla luce della contrapposizione tra i due blocchi e attraverso le imprese dei rispettivi agenti segreti, come liberato dal dovere di stare “dalla nostra parte”, le Carré ha mantenuto schemi e forma del genere spionistico per applicarli a quel tipo di invenzione narrativa che è propria del grande romanzo. Ha messo la suspense al servizio della rappresentazione del mondo di fine Novecento e di inizio del terzo millennio, cogliendone trasformazioni e infamie.

la sLa Technint, la tecnologia dell’era del cyber spionaggio, ha modificato profondamente i modi di operare dei servizi. È per questa ragione che negli ultimi romanzi di le Carré la vicenda è collocata in tempi e/o circostanze del passato, e non deve quindi fare i conti con la Technint di cui le Carré non può avere conoscenza diretta. Ma anche nell’ultimo romanzo, La spia corre sul campo (2019), seppure ambientato nel presente, le Carré ha trovato il modo di far procedere l’operazione con ampio ricorso al vecchio modo di operare (le capacità umane dell’agente) e ai vecchi strumenti tecnologici. Nat, l’agente che, data l’età (ha 47 anni) pensa di essere destinato a qualche ufficio, si vede invece proporre di gestire un settore dedicato a contrastare le spie russe, a tornare in campo (come dice il titolo) con un gruppo di agenti non eccelsi e utilizzando la vecchia strumentazione. Siamo quasi nella situazione della guerra fredda: il nemico da sconfiggere è lo stesso, con la differenza che i russi di oggi, senza l’ideologia alle spalle di quando erano sovietici, sono in tutto e per tutto degli spregevoli figuri, quasi come i delinquenti che utilizzano per le loro operazioni.

Nat è un appassionato giocatore di badminton e ogni lunedì sera gioca contro Ed, un giovanotto introverso che odia Trump e la sua politica, intesa a favorire l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue per indebolire così la forza dell’Europa stessa: nel romanzo viene infatti immaginata una sotterranea collusione tra gli Usa e i servizi segreti britannici per indebolire le istituzioni europee. Con nostra (parziale) sorpresa, Ed trascina Nat verso le sue convinzioni, con le pesanti conseguenze che toccherà al lettore scoprire. Al di là dei suoi meriti letterari, quest’ultimo romanzo di le Carré (in cui leggiamo, come viene detto a Nat, che la Brexit, con la conseguente vergognosa dipendenza della Gran Bretagna dagli Stati Uniti in un’era in cui questi sono lanciati a capofitto verso il razzismo istituzionale e il neo-fascismo, causerà un “casino assoluto”) costituisce un prezioso atto di fede nei confronti della civiltà europea e dei suoi bistrattati valori.

paolo.bertinetti@unito.it

P. Bertinetti insegna letteratura inglese all’Università di Torino