La realtà rappresentata – a cura di Raffaello Palumbo Mosca

Il genere della ricerca morale

di Massimo Castiglioni


LA REALTÀ RAPPRESENTATA
Antologia della critica sulla forma romanzo
2000-2016
a cura di Raffaello Palumbo Mosca
pp. 400, € 24,
Quodlibet, Macerata 2019

L’antologia critica sul romanzo curata da Raffaello Palumbo Mosca può essere letta a più livelli, così come l’organizzazione stessa dei testi nelle quattro sezioni che compongono il volume può essere giustificata (o discussa) in diverse modalità: da una parte ci troviamo di fronte a un aggiornamento critico assolutamente necessario su un tema che, per quanto trattato, è ancora ben lungi dall’esaurirsi; da un’altra, attraverso i testi chiamati a raccolta, si finisce con il confrontarsi direttamente con la recente produzione romanzesca italiana (e non solo), oltre che con le più stimolanti speculazioni teoriche; da un’altra ancora si offre spazio alla critica dei critici contenuta nei cappelli introduttivi di ciascun capitolo, redatti da studiosi, intellettuali e addetti ai lavori più giovani. Una grande operazione in un momento storico in cui la critica – lo sappiamo, ma non bisogna mai smettere di ricordarlo – si trova costretta a muoversi ai margini, annichilita e deprezzata da più parti, quando non dichiarata semplicemente morta. Le tante suggestioni offerte dai saggi antologizzati trovano una prima sistemazione nella fondamentale Introduzione, dove il curatore attraversa alcune problematiche legate alla forma romanzo in una prospettiva teorica e storica che, passando attraverso diversi classici e guardando fino ai giorni nostri, macchiati da mercificazione selvaggia e da un’editoria sempre più “senza editori”, si concentra ampiamente sul caso che ci interessa da vicino, quello italiano, tradizionalmente letto alla luce di un’irrecuperabile debolezza rispetto ad altre storie letterarie ma ampiamente disponibile a instaurare un dialogo serrato con queste storie, se è vero, come viene notato sulla spinta di Alberto Asor Rosa e Giovanni Getto, che tra Ottocento e primo Novecento il romanzo italiano cresce soprattutto guardando all’estero, con Manzoni che fa di Walter Scott il suo modello e che si forma a contatto con i francesi, con Verga debitore di Zola, con D’Annunzio che rubacchia tra la Francia e la Russia e infine con Svevo, non-italiano di formazione (per non dire poi, si aggiunge qui, della picaresca spagnola, che dopo aver pesantemente influenzato tutta la storia del romanzo fa sentire la sua eco anche nel nostro Ottocento, con il Nievo delle Confessioni d’un italiano – specie nei capitoli dedicati alla giovinezza di Carlino – e con Le avventure di Pinocchio di Collodi; oppure delle notturne fantasticherie romantiche ben recepite dai nostri migliori scapigliati).

Ma al di là dell’inquadramento storico (che arrivando al presente individua alcuni importanti percorsi degli autori contemporanei, soprattutto in merito alle possibilità offerte dall’ibridazione dei generi, col romanzo che ingloba il saggio, il reportage o la memorialistica) è il tentativo di comprendere cosa sia nella sua intimità la forma romanzo ad accendere il discorso; e ragionare su questa forma significa mettere a fuoco la sua condizione di genere “della ricerca morale”, quello che pone domande sul mondo e tenta di modificarlo, non proponendo risposte ma insistendo sui dubbi irrisolti e sui fallimenti. Non a caso viene evocato Javier Cercas con la sua proposta di romanzo come genere che rifugge da ogni pretesa pedagogica assoluta (“La letteratura, e in particolare il romanzo, non deve proporre nulla, non deve trasmettere certezze né fornire risposte né prescrivere soluzioni; al contrario: ciò che deve fare è formulare domande, trasmettere dubbi e presentare problemi”, così dice lo spagnolo, in Il punto cieco, Guanda, 2016). E ogni discorso sul romanzo, quindi, nelle parole di Palumbo Mosca porta a “ragionare anche di altro: di politica, di come una società rappresenta sé stessa e nello stesso tempo cambia sotto l’influsso delle rappresentazioni che produce. Significa, in definitiva, ragionare sulle modalità stesse del nostro esistere nel mondo”.

I testi riuniti sollevano diverse questioni entrando in risonanza l’uno con l’altro. Vastissimo è il panorama offerto al lettore, con particolare interesse destato dalle “zone di confine”, quella della quarta sezione, ad esempio, dove si discute – attraverso Matteo Marchesini, Alfonso Berardinelli, Massimo Onofri e Giorgio Ficara – del problematico rapporto tra saggistica e narrativa; o quella che interessa intellettuali come il Raffaele Manica di Exit Novecento, che guarda al secolo passato senza nostalgia e con i piedi ben piantati nel flusso presente; oppure quella dei capitoli dove sono presentati critici che prima di tutto sono scrittori: Franco Cordelli, Antonio Scurati, Walter Siti e Wu Ming, personalità che meritano molta attenzione (a prescindere dalla preferenza accordata all’uno piuttosto che all’altro) proprio per quel loro sostare lungo il limite invisibile che separa il teorico dal romanziere, per avere messo in piedi un discorso sul romanzo sia in testi narrativi sia attraverso la saggistica, praticamente impossibilitati a restare “lontano dal romanzo”, per prendere in prestito un titolo di Cordelli.

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M. Castiglioni è saggista