L’Europa e la presa di coscienza dell’alterità umana

Sulle onde, dimentichi di Enea e Odisseo

di Adriano Prosperi

Un’immagine si è presentata più volte davanti a noi in questo secondo millennio dell’era cristiana: quella di natanti carichi di esseri umani – i “migranti” – che si avvicinano alle nostre coste e tentano di prendere terra e di farsi accogliere. A qualcuno ha fatto tornare alla memoria scene simili della nostra storia e della nostra cultura: c’è chi ha evocato il transatlantico Saint Louis davanti al porto di New York: era carico di migranti ebrei che, respinti, tornarono in Europa per morirvi. E c’è chi ha rievocato l’approdo dei bastimenti di emigrati italiani davanti allo stesso porto. Storie evocatrici di angosce mortali e di speranze spesso deluse. Ma c’è un precedente assai più remoto che ha avuto grande importanza storica e culturale. Osserviamo l’immagine incisa su di un opuscolo a stampa di fine Quattrocento, la Lettera di Cristoforo Colombo che nel 1493 annunciava ai sovrani della Spagna la scoperta di quella che poi si chiamò l’America. Si tratta di un testo e prima ancora di un’immagine che hanno fissato in modo irreversibile l’attimo della nascita del mondo moderno: come ha scritto Tzvetan Todorov, “noi siamo tutti discendenti diretti di Colombo, con lui ha inizio la nostra genealogia”. L’immagine fotografa il momento in cui avviene per la nostra cultura l’incontro con l’“altro”, col “diverso da sé”. Nell’immagine, forse incisa da Albrecht Dürer, vediamo un incontro tra due gruppi umani che si guardano, gli uni dal ponte di una caravella e gli altri dalle sponde di una terra verdeggiante. Lo sguardo incrociato svela improvvisamente a ognuno dei due gruppi una specie umana fino allora totalmente sconosciuta: sconosciuta eppure indiscutibilmente umana. I naviganti sono vestiti e armati, coloro che li guardano dalla sponda sono invece nudi, disarmati e visibilmente combattuti fra la curiosità e la paura. Per la prima volta, dopo le fantasie e i miti delle culture dei millenni precedenti, uomini europei si trovarono di fronte a una umanità sconosciuta, sulla quale e per la quale non esistevano punti di riferimento precedenti. Ci si dovette richiamare all’antico mito pagano dell’età dell’oro o al racconto biblico del Paradiso terrestre, l’unico luogo, secondo la tradizione giudaico-cristiana, dove uomo e donna camminassero nudi tra le piante.

Nella nudità si rivelava l’alterità radicale di quei nuovi esseri. Che fossero davvero umani, Colombo non ebbe dubbio alcuno. Non erano mostruosi come ancora in un libro di geografia di Enea Silvio Piccolomini stampato in quegli anni si narrava che fossero i popoli celati nelle vastità dell’Asia: o come quegli “antipodi”, quelle “razze pliniane” che camminavano con le braccia, avevano gli occhi sul petto e si riparavano dal sole con le palme dei piedi. Niente di tutto questo: gli abitanti delle terre scoperte che furono chiamati allora “barbari” o “selvaggi” erano esseri umani del tutto simili a “noi”, gli euroasiatici. Anche i teologi cattolici dovettero riconoscerlo ufficialmente dopo pochi anni, contrastando almeno sul piano dottrinale il tentativo di definirli sottouomini, homunculi, schiavi per natura. Comincia da qui il regalo fatto dall’Europa al mondo intero, la presa di coscienza dell’alterità umana. Fu questo il momento in cui, uscendo dal Mediterraneo e rompendo l’assedio dei turchi con le caravelle di Colombo e le navi di Vasco de Gama il senso comune dell’identità umana poté rispecchiarsi nello sguardo dell’“altro”. Chi osserva oggi questa immagine non può fare a meno di vedersi affiorare alla mente le condizioni identiche ma speculari in cui avviene oggi l’incontro degli europei con gli “altri”, i migranti, gli esseri in cerca di rifugio: noi li guardiamo dalla costa e loro arrivano come esseri umani nudi, privi di identità che non sia quella del suppliceEd è giusto e necessario riflettere su quello che è accaduto in seguito a quell’inizio e a quell’incontro per capire come si sia arrivati qui. Allora, altre immagini si succedettero, sfornate rapidamente per un pubblico affamato di novità (e altre cose si compirono). Una mostrava il sovrano spagnolo in trono sulla riva “nostra” dell’Atlantico che guarda i naviganti delle caravelle e l’isola abitata da fanciulle nude che danzano festose.

Da un lato, il potere, dall’altro i corpi nudi, inoffensivi e un paradiso terrestre dove l’oro scorre nei fiumi e gli abitanti sono ignari del suo valore e non conoscono la proprietà privata, anzi sono pronti a dare tutto quello che gli si chiede. Erano immagini destinate a alimentare fantasie di dominio e di sfruttamento, al solo prezzo della omologazione religiosa: il battesimo, la cristianizzazione. Fantasie che si tradussero in realtà molto presto, per cui niente fu più come prima, in Europa e in America. Da lì nacque il nuovo senso dello spazio e del tempo che da allora si è imposto. Lo spazio e il tempo si restrinsero, teste lo stesso Colombo, il quale scrisse El mundo es poco. E Todorov ha commentato: “A partire da tale data il mondo è chiuso … il mondo è piccolo”. Nacque così l’idea della piccolezza del mondo, un’idea che colpì fantasie molto diverse, da quella del cardinal Federigo Borromeo a quella di Giacomo Leopardi nella Canzone ad Angelo Mai: “ché conosciuto il mondo non cresce anzi si scema”. E il tempo immobile del medioevo conobbe un’improvvisa accelerazione. Colombo conta gli anni che mancano alla fine. Basterà battezzare tutti gli esseri umani e allora Cristo tornerà. L’Apocalisse è nelle menti dell’epoca. La scoperta di popoli ignoti e delle loro culture e società doveva mettere in movimento il mondo delle idee e delle immaginazioni, in Europa. Da dove venivano quei nuovi popoli, da quando esistevano, come erano vissuti, perché non avevano mai ricevuto la predicazione del Vangelo che pure si riteneva fosse stato diffuso in omnes gentes? Alle spalle della cristianità il tempo chiuso dei quattromila anni di vita del mondo cominciava a mostrare crepe. E le crepe dovevano allargarsi a dismisura nel secolo successivo, con le speculazioni sui popoli preadamiti e sulle sterminate antichità del mondo per finire con l’idea della pluralità dei mondi nello spazio infinito concepita da Giordano Bruno.

Ma intanto era la durata del mondo a venire che si accorciava. Si pensò di essere giunti alla fine dei tempi: lo credette Colombo, lo fece trasparire l’editore del Mundus Novus di Vespucci con quel titolo e con la citazione iniziale tratta dall’Apocalisse. Per anni e anni si continuò a fantasticare e a discutere sul tempo residuo che restava da vivere all’umanità prima del Giudizio universale. Mondo piccolo, tempo concluso: queste due convinzioni di Cristoforo Colombo danno la misura della svolta mentale che allora si ebbe, quella di un ambiente terreno ristretto e quella di un tempo cristiano che si chiudeva verso la fine del mondo. Insomma, l’effetto fu quello di spingere lo sguardo verso le profondità ignote del passato e verso quelle temute o sperate del futuro. E intanto il tempo storico dell’Europa cristiana e l’ordine del calendario dei santi furono imposti ai popoli conquistati. Scatta l’urgenza della conquista, papa Alessandro VI traccia sulla carta del mondo la “raja”, il primo confine tra imperi globali, mentre i francescani distribuiscono il battesimo a folle di popolazioni americane. A stento un gesuita a fine Cinquecento arginerà la fretta del processo di cristianizzazione con la violenza invitando a pensare che la fine del mondo restava remotissima e imprevedibile. Ma tutto questo ha costituito il nucleo di un’idea dell’Europa come conquistatrice e civilizzatrice: Adam Smith in La ricchezza delle nazioni (1776) scriverà che dalla scoperta dell’America ha avuto inizio una nuova epoca nella storia dell’umanità, quella della libertà dei commerci: un’idea che ancor oggi ci avvolge, due parole – libertà e commerci – che ci appaiono dominanti nel nostro presente con significati stravolti e spesso in conflitto tra di loro. Quella libertà comprendeva già allora e da tempo i massicci e lucrosissimi commerci di esseri umani con le navi negriere che resero l’Africa, dove i portoghesi avevano conosciuto tra il Quattrocento e il Cinquecento regni e civiltà importanti, un continente devastato e spopolato. Di quelle navi non abbiamo immagini: restarono come una realtà non esibita, invisibile, vergognosa ma necessaria anzi indispensabile per l’economia e la prosperità dei popoli europei. Se ne hanno documenti nei disegni di come funzionava la logistica dei bastimenti dove i mercanti stivavano i corpi degli schiavi – li chiamavano “pezzi di India” – in modo da portarne il numero più alto possibile sui mercati. E questa fu una non ultima premessa dell’attuale situazione demografica e civile con cui l’Africa si volge oggi verso l’Europa. Né si deve dimenticare che la fondazione del principio di libertà con la celeberrima dichiarazione d’indipendenza americana fu opera di un’élite di proprietari di grandi piantagioni lavorate da schiavi, in un paese dove i nativi “pellirosse” venivano espropriati e decimati. Anche questa è una immagine del mondo che appartiene al deposito invisibile racchiuso nel nostro passato europeo.

Ma ci fu anche il tempo e il modo per guardare al presente stato delle cose e immaginarne il mutamento: un nuovo tipo di pensiero fissò il suo luogo di esercizio nello spazio chiuso e circoscritto dell’isola. Fu l’avvio di un processo lungo nella cultura europea: gli dette origine un piccolo libretto pubblicato nel 1516, l’Utopia di Tommaso Moro. Utopia come “non luogo” o anche “luogo felice”, secondo le due declinazioni del titolo. L’operetta di Tommaso Moro fu la madre di un genere letterario che doveva conoscere un intenso sviluppo nella cultura europea e che già allora alimentò una fantasia capace di immaginare mutamenti radicali nell’assetto della politica: il titolo era pur sempre De optimo Reipublicae statu. Si rompeva così la crosta di immutabilità che aveva tenuto gli esseri umani attaccati alla loro parte di superficie terrestre come molluschi agli scogli. Immaginare un riordino della convivenza sociale, una repubblica platonica diventata realtà voleva dire speculare sulle forme possibili, immaginate, temute o desiderate, dell’assetto politico. Non si poteva – per esempio – creare un sistema sociale regolato secondo la Bibbia? Fu questa l’idea di Thomas Müntzer, colui che accese la fiamma della rivoluzione sociale in Germania, l’animatore e l’eroe sfortunato della guerra dei contadini che aprì la strada opposta rispetto a quella della chiesa evangelica assoggettata ai prìncipi di Martin Lutero. Su quella strada si dovevano muovere in molti. Non per caso in Italia, fu Ortensio Lando che a metà Cinquecento tradusse il libretto di Moro. Era uno spirito radicale sul piano religioso e su quello sociale e politico. E dall’immaginare la società futura si doveva passare all’organizzazione di sette segrete per prepararla: fu questo il piano del movimento settario cristiano dei Rosacroce inventato da Johannes Valentinus Andreae nel Seicento che voleva dare vita a una “cristianopoli” , non più una comunità agricola e artigianale come quella descritta da Tommaso Moro ma un centro urbano dotato di officine e di artigiani-ingegneri.

Quando poi la vita intellettuale fu fecondata dalla cultura illuministica toccò alla letteratura utopica anticipare le speranze più radicali che sfociarono nella Rivoluzione francese. Ma fermiamoci un attimo su di un imitatore italiano celebre dell’immaginazione utopica come anche del disegno rivoluzionario alla Müntzer: Tommaso Campanella, il fallito animatore della rivolta calabrese contro la Spagna. Quando nel 1602 nel carcere napoletano Tommaso Campanella descrisse la sua Città del Sole, la disegnò anche lui come posta su di un’isola. Nella sua utopia quella città ideale aveva una “religione naturale” simile al cristianesimo. Un concetto che si affermò allora maturando per diverse vie. Il medioevo cristiano europeo aveva inteso con quella parola la forma perfetta della vita religiosa, quella degli abitanti delle abbazie e dei conventi: religione significava ordine religioso. E invece ecco che si fece strada l’uso moderno, quello che rende abituale e possibile l’osservazione del peso della religione – non importa se “vera” o “falsa” – a un osservatore che vuole capire il peso sociale e politico di religioni, non importa se diverse e magari nemiche e opposte. L’intelligenza acutissima di Niccolò Machiavelli e il suo sguardo concentrato sulla “realtà effettuale” avevano già coniato l’uso moderno. Ma al tempo di Campanella si era fatta strada anche una idea che aveva trovato incarnazione nel contatto sia coi popoli americani sia soprattutto con le grandi civiltà dell’Oriente. Quella dell’esistenza di una religione naturale, comune a tutti gli esseri umani.

Il portato della riflessione storica e politica che Niccolò Machiavelli innestò sul tronco della tradizione aristotelico-tomistica fu rilanciato grazie alla scoperta della vera via delle Indie e del contatto con le culture orientali, del Giappone e della Cina. Una scoperta senza conquista. Troppo potenti gli stati dell’Oriente: bisognò limitarsi a qualche insediamento marginale e a rivoli crescenti di traffici. Non mancò l’idea che si potesse forzare la situazione: ci fu chi tentò di persuadere Filippo II, padrone del più grande impero mondiale della storia, a forzare con una guerra la chiusura dei porti cinesi. Quel progetto ci fu, ma non si tradusse in realtà se non all’epoca della “guerra dell’oppio” con cui l’Inghilterra forzò l’accesso ai porti cinesi. Intanto per secoli i limiti allora opposti dalle culture e dai paesi dell’estremo oriente alla conquista europea si sono tradotti nella unilateralità di una storiografia come memoria europea del mondo che ha ricordato e celebrato solo il lato occidentale, quello della conquista e della riproduzione di culture europee nel continente americano. Solo in anni recenti si è imposta una correzione a questa persistente distrazione europea. È stato quando si sono ridisegnati i termini reali di quella che era stata la “prima globalizzazione” e si è cominciato ad aprire la strada alla conoscenza delle tante “connected histories” (così Sanjay Subrahmanyam), le molte storie connesse con quella d’Europa di cui finora avevamo trascurato le tracce. Eppure non c’era stata solo la scelta tra conquistare e non conquistare, tra la cancellazione delle culture altre e l’arrendersi a un rapporto di forza sfavorevole.

Portiamo adesso lo sguardo su di un’immagine che non godette di particolare visibilità: rimase incisa sulla copertina di un’opera stampata a Roma a metà Seicento, la Storia della Compagnia di Gesù in Asia di Daniello Bartoli. Qui vediamo genti di diverse culture che si incontrano in pace sullo sfondo di un paesaggio marittimo, con grandi vele di navi. Non c’è la nudità a distinguere l’“altro”, ma l’abbigliamento e il colore della pelle, che non impediscono l’abbraccio pacifico dei diversi tra di loro. L’immagine fu il frutto di un tentativo che andò avanti per quasi due secoli e coinvolse con effetti molteplici cultura e politica europea: la penetrazione disarmata della cultura europea in Oriente, non solo di quella religiosa, attraverso l’opera di missionari gesuiti. L’impresa si svolse sotto il segno di una parola importante: “accomodamento”. Bisognava “accomodarsi agli altri”, imparare la loro lingua, adattarsi ai loro costumi, farsi accettare da loro e tentare di avvicinarli a noi riconoscendo nelle loro convinzioni i contenuti universali della religione cristiana: una religione che intanto e proprio per questo veniva disincarnata, liberata dalle incrostazioni del lungo medioevo europeo, ridotta ai fundamentalia fidei. Fu un lavoro di lunga durata dove la conoscenza e il dialogo avevano la priorità. L’impresa ebbe dei veri eroi intellettuali e religiosi, come Matteo Ricci. Basta pensare fino a dove ci si spinse sulla via dell’“accomodamento”: per esempio decidendo di accettare il termine cinese che apparve più vicino alla nozione di Dio: “il Signore dell’alto”, assai diverso dall’idea cristiana di un Dio persona. Inutilmente da parte dei più prudenti si cercò di imporre il termine ispanico Deos, una parola nuova per qualcosa che non si trovava nella cultura cinese. Fatto degno di nota, fu proprio in quel contesto che si parlò molto di Europa, qualcosa che allora di fatto non esisteva.

Il Seicento europeo fu quello della più lunga e distruttiva guerra di religione, quella guerra dei trent’anni nella quale si scontrarono volontà di potenza di stati e monarchie nazionali e piani di egemonia continentale alimentati dalla più violenta affermazione di religioni nemiche. Eppure quello dell’Europa fu il nome dominante nelle opere edite dai missionari gesuiti in Giappone e in Cina. Qui i gesuiti si presentavano come rappresentanti di un’Europa che descrissero come una realtà culturale e religiosa unitaria, dove le scienze naturali e matematiche fiorivano e i popoli erano resi pacifici e obbedienti dalla religione cristiana. Finzioni strumentali: noi sappiamo che le cose erano ben diverse. Ma sta di fatto che per chi operava in mezzo a culture che distavano mesi e anni di navigazione dal proprio luogo d’origine, in paesi dove si era destinati a consumare talvolta la vita intera – così Matteo Ricci –, quelle rappresentazioni del mondo erano qualcosa di più di una pia finzione. L’esperimento fu impegnativo. Durò un paio di secoli, poi s’interruppe. Lasciò alla riflessione della cultura illuministica un deposito importante di conoscenze e una grande ammirazione per la cultura cinese. Una lunga storia che oggi si deve riconnettere alle nostre piccole storie nazionali ormai inadeguate: una vicenda che è riemersa alla luce della nostra cultura solo quando al termine della seconda guerra mondiale si sono avuti i segni della fine di un’epoca con la partenza delle navi da guerra inglesi dai porti cinesi. Oggi il processo è giunto al suo prevedibile termine: il mondo è troppo piccolo per le ambizioni di conquista, ma anche troppo devastato dalla disuguaglianza. Ed ecco che l’Europa diventa una fortezza e l’Italia finge di non essere più nel Mediterraneo e di avere dimenticato la sua cultura di naviganti, i protagonisti del suo epos, dal greco Odisseo al troiano Enea. Percorsi come quelli che qui ho solo suggerito mostrano, credo, almeno una cosa: che la storia moderna dell’Europa non ci pone davanti a una identità e a una permanenza immobile nel tempo come quella di cui ci parlano tanti pretesi salvatori intesi a proteggerci dalla minaccia dell’“altro”, del migrante in arrivo sulle nostre coste. Un fatto è certo: i problemi di un mondo troppo piccolo per chi lo abita e per le volontà di potenza che lo dominano hanno avuto gli inizi che ho cercato di indicare. Oggi siamo giunti al punto in cui solo concependo la politica come arte di governo pacificamente democratico del sistema-mondo si può uscire da una crisi terminale. Ma sul futuro resta la nebbia, come scrisse Jacob Burckhardt nelle sue Lezioni sulla storia d’Europa (1871), “noi vorremmo conoscere l’onda sulla quale vaghiamo nell’oceano, ma siamo quell’onda stessa”.

adriano.prosperi@sns.it

A. Prosperi è professore emerito di storia alla Scuola Normale Superiore di Pisa