Pasionarie o segretarie del piombo: intervista a Chiara Stagno

Pasionarie o segretarie del piombo e mistificazioni linguistiche varie

intervista a Chiara Stagno di Tiziana Magone

dal numero di settembre 2018

Terrorismo rosso e nero, terrorismo di stato, lotta armata, strategia della tensione… per affrontare una ricognizione dei fenomeni degli anni settanta è bene cominciare, forse, da un chiarimento di tipo lessicale.

L’uso o il non uso della parola “terrorismo” è una questione intorno alla quale chi si appresta a trattare degli anni settanta deve riflettere. Rispetto all’odierna voce “terrorismo” presente nell’enciclopedia Treccani questo lemma ha subìto, nel corso dei secoli, un mutamento di significato notevole. Il termine è stato impiegato come rappresentazione o autorappresentazione di fenomeni troppo vari e diversificati, tanto che provare a darne una definizione accurata oggi non è impresa semplice, soprattutto dopo gli attentati alle torri gemelle, in seguito ai quali si è imposto sulla scena pubblica un ulteriore modo di intendere il terrorismo. Un contenitore, dunque, che racchiude in sé molti, troppi casi storici e un’altrettanta molteplicità di significati. Nello specifico degli anni settanta, accade infatti che i sequestri o gli omicidi politici commessi dalle organizzazioni armate di sinistra vengano definiti atti di terrorismo, allo stesso modo delle stragi compiute durante la fase della “strategia della tensione” dalla destra eversiva e da parti deviate dello stato, distinguendo le due forme di violenza solo con l’aggiunta di una connotazione politica affiancata allo stesso termine. Si parla infatti di “terrorismo rosso” o terrorismo di sinistra e di “terrorismo nero” o terrorismo di destra. Tuttavia l’aggiunta di una specificazione accanto al termine non sembra sufficiente per sottolineare la differenza delle pratiche impiegate dai due schieramenti: l’aggiunta è utile solo per capire chi sia a compiere le azioni. Se, come riportato in un articolo apparso su “The Economist”, “In primo luogo il terrorismo riguarda soprattutto il terrore. Non si tratta solo di violenza, il suo scopo specifico è il terrore. In secondo luogo la violenza è rivolta specificatamente contro i civili”, appare necessario scindere in maniera netta le azioni compiute dalle organizzazioni armate di sinistra da quelle compiute dall’estrema destra. Per queste ultime è dichiarato l’intento di diffondere la paura tra la popolazione e gli attentati sono volti a colpire vittime civili indistinte che hanno solo la sfortuna di trovarsi in quel determinato momento sui treni, nelle piazze, banche, o stazioni prescelte; le formazioni di sinistra identificano invece il loro nemico in persone-simbolo o organi dello stato ben scelti e la morte di civili, sebbene attestata, è un fatto accidentale e non programmato. Decidere di utilizzare la definizione di “lotta armata” per le formazioni di sinistra non vuole in alcun modo essere un tentativo di deresponsabilizzare gli autori della violenza messa in atto, semplicemente corrisponde alla volontà di differenziare e rendere meno ambigua la natura del fenomeno trattato.

“Anni di piombo” è invece un’espressione mutuata dal cinema tedesco che viene spesso usata anche in Italia per dare il segno di un’epoca. È una buona sintesi?

Col tempo la definizione “anni di piombo” si è diffusa nel linguaggio comune ma il suo utilizzo è inadeguato e contribuisce a creare una narrazione falsata degli anni settanta. La sua imposizione a livello pubblico avviene in seguito all’uscita del film Die Bleierne Zeit tradotto appunto in italiano col titolo Anni di piombo. Il sintagma non rispecchia però il significato inteso dalla regista tedesca Margarethe von Trotta che usa il termine Bleierne come metafora per descrivere il clima opprimente – e appunto plumbeo – del secondo dopoguerra. In Italia, invece, il piombo viene associato all’uso delle armi fatto dai militanti appartenenti alle organizzazioni della lotta armata. La creazione di questa categoria dunque si basa su un fraintendimento linguistico e semantico, confusionario e inadatto per altre due motivazioni. In primo luogo, dire “anni di piombo” per intendere il decennio compreso tra gli anni settanta e ottanta contribuisce a generare l’impressione che in quegli anni ci sia stata solo violenza, oppressione, morte e quanto di più nefasto può venire in mente. In realtà, in Italia, quell’epoca è certo costellata di episodi violenti o riconducibili a qualcosa di buio, ma è anche il tempo di un fermento culturale che porta a un forte cambiamento sociale. Inoltre, il piombo al quale ci si riferisce è quasi sempre associato solo alle munizioni utilizzate dalle organizzazioni di sinistra della lotta armata, e questo contribuisce a creare una narrazione che identifica quei militanti come gli unici responsabili della violenza e del sangue versato negli anni settanta, mettendo in secondo piano il ruolo delle organizzazioni di destra e delle parti deviate dello stato responsabili delle stragi.

Le corrispondenze che pubblichiamo sono tra donne, un’intellettuale di sinistra, Christa Wolf, ed ex-militanti della lotta armata italiane e tedesche, ma le fonti rimandano a un dibattito più ampio che ha coinvolto altre protagoniste. Esiste uno specifico femminile nell’adesione o nel racconto della lotta armata?

Le donne partecipano alla lotta armata fin dagli inizi e ricoprono ruoli di primo piano o secondari tanto quanto gli uomini. Sono però i media, fin dagli albori del fenomeno, a identificare la presenza del femminile come un carattere di eccezionalità. Se consideriamo il rapporto tra femminile e violenza non c’è certo da stupirsi, fin dai tempi più antichi questo binomio esercita sull’opinione pubblica un’ambivalenza significativa che va dall’aberrazione alla seduzione. La donna in armi, la donna che uccide, rompe i confini del femminile tracciati dal senso comune e diventa oggetto, e non più soggetto, caricatura e stereotipo. Il più delle volte la descrizione di queste militanti è dicotomica: da una parte chi aderisce alla lotta armata lo fa per amore, per seguire il proprio uomo; dall’altra chi ne fa parte viene descritta come affetta da problemi psichici o comportamentali. Per usare le parole di Ida Farè e Franca Spirito nelle descrizioni mediatiche, “le guerrigliere sono tutte ‘pasionarie’, ‘valchirie’, ‘BB del mitra’ o ‘segretarie delle Br’”.
A oggi, nonostante le recenti pubblicazioni, gli studi in campo storiografico non sono sufficientemente approfonditi per poter definire se ci sia uno specifico femminile nel prendere parte alla lotta armata, e in quale modo si possa declinare. Servirebbero delle nuove ricerche che, tenendo conto dei contesti in cui si è sviluppato il fenomeno e delle caratteristiche peculiari delle differenti organizzazioni, comparino le esperienze femminili e maschili per indagarne eventuali differenze ricorrenti. Per il momento è possibile rintracciare uno specifico di genere nel modo di vivere i rapporti interpersonali tra membri delle organizzazioni armate, nella quotidianità della militanza e, soprattutto, nella rielaborazione di quell’esperienza. La differenza sostanziale consiste nel fatto che il più delle volte gli uomini ricostruiscono la loro storia in modo preciso ma fattuale, le donne invece sono più concentrate a trasmettere una rielaborazione dei fatti accaduti che tenga conto della doppia soggettività dell’autrice: di colei che ha vissuto l’esperienza e di colei che la restituisce a posteriori. Inoltre, da un’analisi delle testimonianze e delle autobiografie prodotte si ravvisa che la consapevolezza corporea cambia a seconda del genere. Le donne sanno usare e ribaltare a loro favore i luoghi comuni e i clichés per raggiungere gli obiettivi prefissati: sono spesso loro a reperire gli appartamenti usati come basi, e il femminile protettivo e rassicurante è un utile espediente per guadagnare tempo prezioso durante le azioni. Applicare la categoria del genere per analizzare le motivazioni della scelta di adesione ai gruppi armati non sembra però una via praticabile. A questo proposito uomini e donne militanti operano una scelta che è politica e personale, le loro ragioni vanno rintracciate attraverso lo studio delle soggettività e non possono essere banalizzate o uniformate a seconda dell’appartenenza di genere.


I libri

  • Rosella Simone, Donne oltre le armi. Tredici storie di sovversione e genere, pp. 256, € 16,90, Milieu, Milano 2017
  • Parole e violenza politica. Gli anni Settanta nel Novecento italiano, a cura di Giuseppe Battelli e Anna Maria Vinci, Carocci 2014
  • Diego Novelli e Nicola Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Garzanti, 1988
  • Luisa Passerini, Ferite della memoria. Immaginario e ideologia in una storia recente, in “Rivista di storia contemporanea”, vol. 17(2), 1988
  • Ida Faré, Franca Spirito, Mara e le altre. Le donne e la lotta armata: storie interviste riflessioni, Feltrinelli, 1979
  • Walter Laqueur, Storia del terrorismo, Rizzoli, 1978

Film, documentari, inchieste

  • La Prima Linea, di Renato De Maria, 2009 (film)
  • Do you remember revolution, di Loredana Bianconi, 1997 (documentario)
  • La notte della Repubblica, di Sergio Zavoli, 1989 – 1990 (programma televisivo d’inchiesta)
  • Die Bleierne Zeit (Anni di piombo), di Margarethe von Trotta, 1981 (film)