Dicembre 2016 – In questo numero

Sotto l’ala battente dei classici

A fine anno, quasi in un bilancio ideale, «L’Indice» pone sotto l’occhio dei suoi lettori i classici che possono  anche raccontare il presente o illuminare il nostro tempo con le loro idee. Preziosissime in questo senso le due pagine che, a trent’anni dalla morte di Goffredo Parise, Francesco Morgando e Virginia Giustetto dedicano allo scrittore, scegliendo diverse angolazioni e spunti di lettura originali: «La dialettica centro-provincia è una costante nella vita e nei libri i Goffredo Parise. È sempre un andare e ritornare, prima da Milano, da Roma, poi dalla Cina, dal Vietnam, dal Biafra, costruendo cerchi dal raggio sempre maggiore, fino a trovare il suo ‘Eden a forma di labirinto’ a Salgareda, con vista sul Piave».

Poche pagine più avanti un omaggio a un altro grande scrittore italiano, che rifiutava l’etichetta di «classico», Elio Vittorini. Scrive Calcaterra: «Vittorini rigetta il concetto astorico e per cosi dire ontologico di “classico”(esempio per antonomasia di ‘perfezione in arte’). Possiamo concluderne che, nella sistematica ossessione di storicizzare (di mettere in situazione) il suo evangelo gnoseologico-razionale, non abbia fatto altro che presentarsi, ancora  in vita, come classico, ‘autore di punta’ della temperie storicoculturale che si apprestava a descrivere e analizzare criticamente. Epperò senza mai rassegnarsi a passare di moda, a uscire fuori corso, se è vero quello che andava scrivendo negli anni ottanta dell’autore di Conversazione in Sicilia il solito Fortini: “Credeva alla gioventù come a una giustizia. Non volle sentirsi ingiusto. Invecchiare gli fu difficile».

Inutile dire che su questa strada dei «classici» sembra collocarsi a pieno titolo una scrittrice recentemente scomparsa, Marina Jarre, di cui «L’Indice» pubblica un racconto inedito (uno degli ultimi scritti) per gentile concessione degli eredi, e che viene così presentato da Beatrice Manetti: «È un racconto sul tempo, che sembra però non toccato dal tempo; perché nella voce della protagonista, che rievoca le estati trascorse da bambina nella casa dei nonni in Sardegna, risuonano la stessa freschezza lapidaria e la stessa inventiva piena di grazia e di ironia dei primi libri della scrittrice, in particolare del romanzo Negli occhi di una ragazza (1971). Alle soglie dei 91 anni (era nata a Riga, in Lettonia, il 21agosto 1925 da padre ebreo e madre italiana valdese), Marina Jarre era rimasta fedele non solo al suo stile ma anche e soprattutto a quell’atteggiamento verso la vita che spinge la protagonista della Casa rosa a raccontare una sua misteriosa e inquietante avventura d’infanzia: “non m’importa delle storie, mi è sempre importato delle persone e dei loro segreti”. Le persone e i loro segreti sono stati la materia narrativa prediletta di Marina Jarre fin dal romanzo d’esordio, Monumento al parallelo, uscito nel 1968 e riedito quattro anni dopo col titolo Un leggero accento straniero, dove un ex nazista racconta la propria integrazione riuscita nella società italiana del dopoguerra. Anche se stessa, perfino i suoi segreti più dolorosi sono passati dal setaccio del racconto:su tutti la fuga da Riga a Torre Pellice nel 1935 con la madre e la sorella, che la sottrasse al massacro degli ebrei lituani dove morirono invece il padre e l’altra sorellina Irene».

Leggendo il racconto di Marina Jarre (che è anche un invito alla lettura dell’opera della scrittrice), non abbiamo dubbi sulla sua appartenenza alla categoria dei classici della nostra letteratura. Ma il concetto di «classico» può valere anche per altri settori, può essere usato anche per la comprensione dei fenomeni contemporanei? Dalle pagine del numero di dicembre dell’«Indice», Gabriele Magrin lancia un urlo di dolore sul tema dello svuotamento della democrazia e della destrutturazione dell’elettorato, a partire dall’analisi dell’opera del politologo Peter Mair: «Il deficit democratico delle istituzioni europee non è né un’eccezione, né un effetto imprevisto. Almeno dai primi anni novanta, è la concreta traduzione di un’opzione neo-istituzionalista tesa a rafforzare il potere degli esperti e delle istituzioni non-maggioritarie. A discapito del voto popolare e delle istituzioni rappresentative. Da qui, non solo la limitazione dello spazio politico, ma anche una dinamica di contagio: ‘attraverso l’Ue, i cittadini europei hanno imparato a vivere in assenza di un’effettiva democrazia partecipativa e con una crescente assenza di politica’… Indifferenza e astensionismo, crisi dei partiti e tentativi di rilegittimarne le leadership, oligarchie tecnocratiche e reazioni populistiche: sono questi gli elementi di una possibile catena esplicativa, o quanto meno di un preoccupante quadro d’insieme».

Di fronte a questo «preoccupante quadro d’insieme», in effetti, non sembra inutile riscoprire le qualità dei classici anche nell’ambito della politica e dell’osservazione della società. Sembra questa la strada percorsa dalla nostra rivista, che  rivolge lo sguardo a  Piero Gobetti,  in occasione della ripubblicazione di alcune opere, fra cui Rivoluzione protestante. Scrive Cesare Pianciola: «L’epoca di Gobetti è quella della crisi della ristretta e oligarchica democrazia liberale, che non resse all’affermazione dei partiti di massa (i popolari e i socialisti) nell’arena politica, alle suggestioni antiparlamentari di destra e di sinistra, alla conclusiva offensiva fascista. Viviamo in un’epoca di nuova e diversa crisi della democrazia – la crisi di quella che si instaurò in Europa nel secondo dopoguerra, fondata su partiti profondamente radicati nel tessuto sociale. Un ripensamento delle analogie e delle differenze può essere un utile esercizio, per il quale è imprescindibile anche una rilettura degli scritti di Gobetti, senza cadere in anacronistiche decontestualizzazioni del suo pensiero, del resto in fieri e irriducibile a formule definitive».

Sono i libri riproposti dall’editoria a sottolineare l’attualità dei classici: Il Ponte ripropone gli scritti politici di Aldo Capitini con il titolo Un’alta passione, un’alta visione, che, come ci spiega Giovanna Lo Presti, «porta immediatamente il lettore nel centro del pensiero di Capitini, pensatore troppo spesso conosciuto per ‘sentito dire’ e quindi, nella sostanza, messo da parte e dimenticato (…). Nello scritto del 1956, Rivoluzione aperta, prende forma precisa uno dei pilastri della visione di Capitini: la convinzione che tutti i viventi concorrano alla produzione di ‘valore’, che ognuno, anche debole, vecchio, malato possa fornire un’’aggiunta’ al valore, che non possa esistere società giusta che non sia di tutti, che non sia aperta, che non sia basata su una visione religiosa, la quale, pero, non ha nulla a che fare con le religioni positive, con i loro riti e il loro autoritarismo. Religiosa e quella tensione che dice all’uomo di non accontentarsi della vita quotidiana e ordinaria e utilitaria, in cui invece la politica affonda le sue giustificazioni». «Non accontentarsi della vita quotidiana e ordinaria e utilitaria»: quale più perfetta definizione del carattere e del valore universale dei classici?

 Tutti i sommari da dicembre 2012 a oggi