Alain Mabanckou (a cura di) – La felicità degli uomini semplici

I Maracanã tra la spazzatura

recensione di Pietro Deandrea

dal numero di dicembre 2016

Alain Mabanckou (a cura di)
LA FELICITÀ DEGLI UOMINI SEMPLICI
trad. dall’inglese di Michele Martino, dal francese di Cinzia Poli, dal portoghese di Nunzia De Palma
pp. 165, € 18
66thand2nd, Roma 2016

Alain MabanckouGhana-Uruguay, quarto di finale dei mondiali sudafricani del 2010. Sull’1-1, si va ai supplementari. Il Ghana vuole chiaramente vincere prima di arrivare ai rigori, l’Uruguay si chiude in difesa. C’è trepidazione tra gli appassionati di calcio africano, perché per la prima volta una squadra del continente può raggiungere le semifinali. Ed è dramma allo stato puro: allo scadere dei supplementari l’uruguayano Suarez ferma con la mano, sulla linea di porta, un colpo di testa avversario. Calcio di rigore ed espulsione. Il ghanese Asamoah Gyan, però, sbaglia il rigore, e così ai rigori si va. Con grande coraggio, in un momento ancora più drammatico, Gyan decide di calciare uno dei cinque rigori. E lo segna. Ma non basterà: passa l’Uruguay, e ancora oggi l’Africa non ha mai avuto una squadra in semifinale ai mondiali. Una partita che incarna lo spirito, le sofferenze e le occasioni mancate dell’Africa (anche a causa di «colpi di mano» stranieri), di cui in un’antologia sul calcio di 15 scrittori africani mi attendevo di trovare almeno un riferimento. Invece questa raccolta rivela una ricchezza e varietà di storie che sfuggono a ogni facile, magari un po’ eurocentrica, aspettativa.
Certo, c’è chi riprende modelli un po’ triti, come Mike Nicol nella storia di gangster sudafricani in stile Tarantino. Ma buona parte dei racconti è contraddistinta da una visione molto particolare. I paralleli tra calcio e malapolitica abbondano: il curatore Mabanckou racconta di un brocco che non solo non può andare in panchina perché nipote del sindaco, ma finisce addirittura in nazionale; svenuto per uno scontro di gioco, riprende i sensi dichiarando di chiamarsi Edson Arantes do Nascimento, cioè Pelé.

Su campetti disastrati con scarpini improvvisati

Uno scenario ricorrente è quello del campetto anonimo e improvvisato, quando non disastrato. Lucy Mushita descrive come la squadra di un villaggio dello Zimbabwe riesca rocambolescamente a procurarsi delle scarpe da gioco grazie a determinazione, sacrifici e pianificazione collettiva, non senza momenti d’involontaria comicità. Una simile atmosfera tragicomica si ritrova in un villaggio del Benin raccontato da Florent Couao-Zotti, dove una ragazzina porta il suo talento, ma anche un po’ di scompiglio, in una squadretta di maschi. Helon Habila narra di un giornalista sportivo nauseato dagli squadroni europei: «Sono tutte dei marchi, di proprietà di qualche miliardario in Russia o in America o in Medio Oriente. E noi siamo i consumatori, che comprano ciecamente qualsiasi cosa loro producano, dai giocatori alle magliette, alle caramelle, alle scarpe, alla crema da barba. È per questo che do le dimissioni. Ho perso la fede nello sport, non voglio più scrivere di sport. Ma Buzuzu era diverso». Come lui, Buzuzu proveniva dal ghetto lagosiano di Ajegunle, e giocava nel campetto locale soprannominato Maracanã che «come qualsiasi altra cosa, qui a Ajegunle, è praticamente sommerso di spazzatura». Molti anni prima, aveva visto Buzuzu segnare un gol spettacolare in rovesciata, per poi seguirne le gesta fino alla squadra nazionale, una delle tante promesse sfornate dal talentuoso calcio nigeriano. Tornato nel ghetto, Buzuzu viene ucciso in una rissa mentre tenta di difendere un ragazzo dalla violenza dei militari intervenuti; un poliziotto gli spara a bruciapelo, e ovviamente rimarrà impunito. Al giornalista non resta che tornare ad Ajegunle per un ultimo articolo, e molte amare riflessioni: «Un sogno che cade su questo campo è destinato a infrangersi come un uovo sul cemento?».

Un personaggio che sbarca il lunario all’estero grazie al proprio talento è narrato da Yahia Belaskri; rifugiato di guerra e cannoniere di una squadra algerina, dopo aver sbagliato alcuni gol subisce tragicamente tutto il razzismo dei propri tifosi: «Mamadou è frastornato, non capisce cosa sta succedendo. Perché tanto odio da parte dei tifosi? Si volta verso la panchina, nessuno incrocia il suo sguardo, è solo, in pasto al branco». Il calcio come catalizzatore del lato peggiore degli umani non si mostra solo nel branco: Noo Saro-Wiwa mette in scena i ridicoli infantilismi di una famiglia di afro-britannici dove il bimbo più piccolo è conteso tra i parenti maschi dell’Arsenal e quelli del Tottenham.
La perla del volume è di Abdourahman A. Waberi (Gibuti), che tratteggia liricamente l’atmosfera di una cittadina sul Mar Rosso, «un lembo di terra che sembra sopravvissuto all’era dei grandi sauri», in trepida attesa di una finale di Coppa d’Africa. Immagini quotidiane come le carcasse dai macellai («Gli insetti, disciplinati, le ricoprono in un attimo, quasi a voler offrire loro un sudario o meglio una nuova pelle») si alternano alle rivalità commerciali scatenate dalle grandi multinazionali: «Dovremo smascherare gli uomini di paglia e i prestanome che prediligono le licenze straniere (…). E a noi cosa resta? Fare soldi con la carne marcia, impugnare un kalashnikov e andare dietro a tutte le sottane che passano per strada? Far bisboccia insieme?». Alla fine resta, appunto, il pallone: «Mi unisco alla folla. Guarda un po’, pare che la partita sia cominciata».

pietro.deandrea@unito.it

P Deandrea insegna letteratura inglese all’Università di Torino