Alessandra Sarchi – La notte ha la mia voce

Nel mondo dei bipedi camminanti

recensione di Eloisa Morra

dal numero di Ottobre 2017

Alessandra Sarchi
LA NOTTE HA LA MIA VOCE
pp. 167, € 22
Einaudi, Torino 2017

Alessandra Sarchi - La notte ha la mia voceCome spesso nei romanzi di Alessandra Sarchi l’incipit è folgorante: “Presto ho scoperto di essere morta. Siccome però mi toccava continuare a vivere, ho tirato avanti”. Chi sia la portatrice della voce che sembra parlarci da uno spazio altro lo anticipa la copertina di La notte ha la mia voce (vincitore del premio Mondello), perfetta eco ottica della tessitura del romanzo. Una donna dai capelli rossi è sdraiata a occhi chiusi su una base di sterpi, terriccio e sassi con i quali il suo corpo sembra confondersi; la prospettiva è capovolta, e ne esclude le gambe dalla nostra vista. Così la protagonista di questo romanzo dalla scrittura densa e screziata si trova, in seguito a un incidente, a perderne l’uso e la sensibilità e l’intera immagine di sé fino a quel momento, quella donna “giovane e carina” riflessa in una foto che pensava sarebbe rimasta per sempre.
All’inizio, comprensibilmente, preme la volontà di cadere nell’oblio di se stessi: “Anch’io volevo non sapere. Essere e basta, ma ancora in vita. Sottrarmi a quest’esilio dell’io per tornare a essere materia che si trasforma”. Ma dal buco nero di ogni perdita si aprono – così nella voluta ambiguità dell’immagine di copertina e nell’esergo tratto da Kosinski, “l’impulso che sta alla base della sopravvivenza è intrinsecamente libero” – diverse possibilità di scelta: si possono chiudere gli occhi e morire, o immaginarsi in una vita nuova e densa di sfide quotidiane.

Oggetto narrativo moderno e antico

“L’umanità che si salva, prima di tutto, immagina”: Sarchi ci conduce senza paure attraverso un sentiero di scoperta di un “mondo nuovo” attraverso il corpo di una scrittura allo stesso tempo implacabilmente lucida (si è parlato, a ragione, di risonanze leviane) e visionaria. Complice di questa abilità di confrontarsi con una tematica, il corpo, spesso trattata in modo superficiale e voyeuristico da tanta poesia e narrativa contemporanea è, oltre allo stile, l’architettura del libro. Al breve prologo si susseguono tre movimenti, quelli della Terra, dell’Aria e dell’Acqua. A ogni capitolo corrisponde una conquista percettiva da parte della narratrice, che impara progressivamente ad accettare il passaggio dal mondo dei “bipedi camminanti” a una condizione altra, e a ri-conoscere il proprio corpo attraverso la consapevolezza dei fili invisibili che lo legano alla natura, solo apparentemente inanimata: “Le gambe sfuggivano alla presa delle mie parole, come se fossero state riassorbite dalla natura, da quello stato primario in cui tutto assomiglia a tutto”. La densità del passaggio porta a farci qualche domanda sul genere letterario cui ascrivere il libro: di fronte a che tipo di scrittura ci troviamo? La notte ha la mia voce non è un memoir né una autobiografia, ma un oggetto narrativo moderno e antico: romanzo e racconto cosmogonico alla maniera di Ovidio, è in questa natura intimamente speculativa eppure attenta al dettaglio che risiedono la sua originalità e valore.

Alle risonanze ovidiane e ai prestiti dall’ambito del linguaggio medico e delle neuroscienze si aggiunge una matrice dantesca, anche se da intendersi in senso non tradizionale: più che davanti a un percorso lineare di ascesa ci troviamo di fronte a una strada impervia, dove è volutamente ambiguo in cosa stiano l’inferno e la beatitudine, l’esser sani e la malattia (seppure sia sempre presente la consapevolezza che “essere vivi e sani è cosa sottovalutata e immensa” ). Chiave di volta del romanzo e ideale controcanto alla voce narrante è un personaggio che nulla ha del Virgilio dantesco: Giovanna, ribattezzata dalla narratrice Donnagatto per la sua abilità a districarsi nei movimenti e nelle traversie della vita nonostante sia priva di un arto, è sensuale e impaziente, quasi una provocatrice. “Di lei mi arrivò la voce, per prima”: una voce argentina che ha il potere di riportare la narratrice al “prima”, con le sue lotte e desideri quotidiani. Se chi dice io ha buttato le scarpette da danza che le ricordano una vita che non c’è più, Giovanna – che ballerina non lo è stata mai – in casa sua ha costruito un pantheon alla Grazia: lo abitano innumerevoli foto di Nureyev e Sylvie Guillem, emblemi di perfezione fisica che mettono in discussione l’idea stessa del corpo come limite. Il suo stesso lavoro notturno, telefonista per una chat erotica che dispensa calore e perfezione ai “camminanti”, è un continuo confrontarsi con una condizione di mancanza che si fa pienezza. Nell’opposizione tra due caratteri e due approcci alla vita si gioca lo scorrere di un romanzo tanto più necessario perché – come nel dipinto Ragazzo che fa le bolle di sapone di Chardin, evocato nelle pagine finali – ha il coraggio di non abbandonare l’immaginazione pur rimanendo intriso di esperienza e verità.

eloisamorra@fas.harvard.edu

E Morra è critico letterario e saggista