Materialità del digitale: la bugia del cloud

I media studies scoprono la fisicità della digitalizzazione

 di Gabriele Balbi

dal numero di marzo 2016

Secondo una narrativa diffusa, le tecnologie digitali di comunicazione – contrariamente a quelle analogiche – sono virtuali, leggere, ecologiche, immateriali. Il digitale viene dipinto così perché è fatto di bit, dati intangibili che assumono solamente due stati (0 e 1, come dire “acceso” e “spento”), perché questi stessi dati sono trasferiti sotto forma di impulsi elettrici e di luce, perché infine tutti noi accediamo alle informazioni che si trovano in cloud (niente è più etereo delle nuvole) attraverso strumenti leggeri, portatili ed esteticamente piacevoli.

Questa idea diffusa comincia però a vacillare di fronte a una serie di recenti ricerche nell’ambito dei media studies che paiono aver scoperto – o meglio, come diremo in seguito, riscoperto – la dimensione fisica, la pesantezza, appunto la materialità del digitale lungo la filiera della conservazione, del trasporto e del consumo dei dati. Un esempio per ogni fase dovrebbe aiutare a chiarire il cambio di paradigma.

Il cloud computing o i portali che conservano e permettono di ritrovare informazioni velocemente (pensiamo a Google nel mondo occidentale) nascondono una dimensione fisica poco evidente ma cruciale. Tung-Hui Hu (A Prehistory of the Cloud, The Mit Press, 2015) ripercorre, per esempio, la storia del cloud dimostrando che si tratta di una costruzione metaforica che risale all’inizio del Novecento, che centralizza la gestione dei dati invece di decentrarla e personalizzarla, ma soprattutto che si basa su e si serve di strutture fisiche. I dati in cloud sono conservati in centri e luoghi ben identificabili: negli Stati Uniti i bunker militari che avrebbero dovuto proteggere i cittadini americani da eventuali attacchi nucleari sovietici durante la guerra fredda, per esempio, ospitano oggi molti data center; e parallelamente, sostiene Hu, la metafora della difesa e della salvaguardia di vite umane ha oggi lasciato spazio a quella della protezione dei dati. In barba al presunto ambientalismo digitale (non a caso parlavamo di ecologia all’inizio dell’articolo) si calcola poi che le infrastrutture legate al cloud computing nel 2008 fossero responsabili addirittura del 2 per cento delle emissioni planetarie di gas serra, cifra probabilmente cresciuta visto il dilagare del fenomeno.

Se i nostri dati sono conservati in luoghi fisici ben identificabili, le reti che li trasportano sono a tal punto radicate e tangibili che alcuni studiosi hanno proposto di mettere proprio le infrastrutture al centro della riflessione sui media digitali (Francesca Musiani, Derrick L. Cogburn, Laura DeNardis, Nanette S. Levinson, The Turn to Infrastructure in Internet Governance, Palgrave, 2016). Lisa Parks e Nicole Starosielski (curatrici di Signal Traffic. Critical Studies of Media Infrastructures, University of Illinois Press, 2015) hanno ricordato che il flusso dei dati digitali si sviluppa attraverso le eredi di quelle reti di telecomunicazione che hanno circondato il globo dalla metà dell’Ottocento. I cavi sottomarini, che sembrano appunto legati a un’epoca passata di telegrafia elettrica e colonialismo, vedono oggi transitare il 99 per cento del traffico internet internazionale e molti progetti prevedono un’estensione della loro rete nei prossimi decenni. Oltretutto, così come ricordato per i centri di raccolta delle informazioni, anche la geografia dei luoghi di flusso assume spesso una seconda vita con il digitale: torri per la raccolta e la distribuzione delle acque pluviali che diventano siti ideali per le antenne di smistamento del traffico di telefonia mobile; località sperdute in Finlandia che si trasformano da luoghi di raccolta e lavorazione della carta in centri in cui Google installa server che hanno bisogno di basse temperature e di regioni geograficamente strategiche per la distribuzione efficiente dei dati; paradisi naturali nelle Hawaii che continuano a costituire hub per il flusso di dati, dal primo cavo telefonico gettato nel Pacifico degli anni cinquanta e sessanta del Novecento alla fibra ottica per il traffico internet. Evidentemente la retorica della morte della geografia e dello spazio in epoca digitale è una bugia colossale perché, anche a livello infrastrutturale, alcune zone della terra contano più di altre e, anzi, i centri di distribuzione più importanti per i flussi di comunicazione analogica conservano la loro rilevanza anche con il digitale.

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La materialità del digitale è forse ancor più evidente se consideriamo la fase del consumo. Contrariamente a quanto sostenevano i paladini della convergenza dei media d’inizio anni ottanta del Novecento, e cioè che a breve si sarebbe utilizzato un singolo strumento per accedere a vari servizi telefonici, televisivi, di elaborazione dei dati (ribattezzandolo anche con l’anglo-tedesco Überbox), usiamo sempre più dispositivi. Le nostre case e le nostre tasche sono invase da oggetti fisici che permettono di fruire contenuti digitali: computer portatili e fissi, tablet, smartphone, orologi, memorie esterne per fare solo alcuni esempi. Per uscire dall’ovvio, la moltiplicazione dei device digitali impone una riflessione anche sull’obsolescenza tecnologica (Babette B. Tischleder e Sarah Wasserman, Cultures of Obsolescence. History, Materiality, and the Digital Age, Palgrave, 2015). In primo luogo, stimolando la produzione e il consumo di oggetti materiali, la digitalizzazione impone una sorta di obsolescenza programmata: i dispositivi digitali, molto più di quelli analogici, sono pensati per avere una durata predefinita, al termine della quale vengono sostituiti da altri modelli in un processo consumistico ricorsivo. Con questo non s’intende che gli strumenti digitali siano costruiti con materiali scadenti o in maniera inaccurata, ma che per ragioni di moda o di erosione delle loro capacità di calcolo “invecchino” precocemente; non a caso la legge di Moore sostiene che ogni diciotto mesi la potenza di calcolo dei computer raddoppia. Un secondo aspetto legato all’obsolescenza digitale è, ancora una volta, la seconda vita degli oggetti: vecchi telefoni mobili o computer dismessi spesso viaggiano dal Nord America e dall’Europa verso zone del pianeta considerate più povere, dove trovano nuovi utilizzatori o dove i loro materiali vengono smantellati e in parte recuperati. I materiali di cui si compongono gli oggetti digitali, quindi, in alcuni casi vengono anche riciclati come qualsiasi altro prodotto.

Il cloud e la scoperta della materialità del digitale

Due elementi più di altri sorprendono nella scoperta della materialità del digitale da parte dei media studies. Il primo è che gran parte dei volumi che stanno inquadrando questo fenomeno hanno un taglio storico e, quindi, introducono una dimensione diacronica negli studi sulla digitalizzazione che sembrava impensabile fino a poco tempo fa. L’approccio storico a sua volta sta favorendo l’adozione di uno sguardo critico alla cosiddetta “rivoluzione digitale”: in particolare, l’idea secondo cui ci sia un prima analogico e un dopo digitale è sempre più in questione, sostituita dal progressivo riconoscimento delle continuità tra pratiche precedenti e successive alla digitalizzazione (oltre al libro di Hu citato, questo tema emerge in Gabriele Balbi e Paolo Magaudda, Storia dei media digitali. Rivoluzioni e continuità, Laterza, 2014 e Agustín Berti, From Digital to Analog. Agrippa and Other Hybrids in the Beginnings of Digital Culture, Peter Lang, 2015). Il reciproco rinforzo e influenza tra universi mediatici analogici e digitali è un corollario di questa idea: le infinite possibilità d’acquisto online su siti quali Amazon stimolano la vendita di libri cartacei (non a caso Bruno Latour qualche anno fa ha ricordato che stiamo passando dal virtuale al materiale e non viceversa); piattaforme come Flickr consentono di giocare con il passato analogico della fotografia; il prepotente ritorno del vinile segnala una resistenza di vecchie pratiche di consumo e una nostalgia legata alla fisicità dell’analogico (ancora la materialità) che permea gran parte delle cosiddette culture digitali (per l’industria musicale Elodie A. Roy, Media, Materiality and Memory Grounding the Groove, Ashgate, 2015; sulla nostalgia nell’era digitale a cura di Katharina Niemeyer, Media and Nostalgia. Yearning for the Past, Present and Future, Palgrave Macmillan, 2014).

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Il secondo elemento sorprendente della scoperta della materialità del digitale è che, in verità, si tratta di una riscoperta. Che i centri di conservazione e smistamento dei dati, che le reti di distribuzione, che le pratiche di consumo siano legate a tecnologie e dimensioni tangibili sono tutti temi che gli storici delle telecomunicazioni e gli studiosi legati ai cosiddetti Science and Technology Studies (STS) danno per assodati da qualche decennio. I media studies hanno quindi scoperto l’acqua calda? In parte sì, come detto, in parte si tratta di un cambio di paradigma che coinvolge l’intera disciplina. Come sostengono Tarleton Gillespie, Pablo Boczkowski e Kirsten Foot, curatori di un altro libro che dedica ampio spazio a digitale e materiale (Media Technologies. Essays on Communication, Materiality, and Society, The Mit Press, 2014), i media studies stanno lentamente migrando dall’attenzione ossessiva per i contenuti (i programmi radiotelevisivi ad esempio) verso quella per le infrastrutture. In altri termini, i media studies stanno assorbendo temi e concetti prima riservati agli studiosi delle telecomunicazioni e della tecnologia. Questo avvicinamento non è casuale e incrocia proprio la digitalizzazione: in un momento storico in cui i media si stanno ibridando e stanno appunto convergendo – quando in sostanza diventa sempre più difficile distinguere tra un telefono, una radio, una televisione e un computer – la disciplina stessa si interroga e cambia pelle per poter comprendere ancora il suo oggetto di studio. Chissà quindi che la materialità del digitale non rappresenti solo l’inizio di una svolta paradigmatica in grado di orientare l’interesse dei media studies verso le infrastrutture, le piattaforme, i flussi. Una svolta che cambierebbe, finalmente, il modo stesso di studiare i media.

gabriele.balbi@usi.ch

G Balbi insegna media studies presso l’Università di Lugano