David Bowie – La musica come teatro

Creatore di nuove estetiche e sperimentatore estremo

di Pierpaolo Martino

dal numero di aprile 2016

In una scena chiave di Velvet Goldmine, un film diretto nel 1998 da Todd Haynes che narra la vicenda del glam rock attraverso la figura del cantante Brian Slade, quest’ultimo viene interrogato in una sorta di circo mediatico da alcuni giornalisti; uno di questi gli chiede di parlare del rapporto tra sé e il suo alter ego della finzione scenico-musicale, vale a dire Maxwell Demon, una creatura dello spazio che diventa un messia del rock per essere distrutto dal suo stesso successo (chiaro riferimento allo Ziggy Stardust di Bowie). Slade risponde citando un celebre aforisma di Wilde tratto da Il critico come artista: “L’uomo è meno se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera e vi dirà la verità”. Ebbene, tutta l’epopea del glam è una storia di maschere costruite a tavolino al fine di mettere in discussione ogni visione rigida ed esclusivista riguardo a questioni di gender. È possibile, in realtà, leggere non solo la vicenda del Bowie-Stardust ma tutta l’epopea bowiana in termini teatrali. Bowie è stato un maestro della reinvenzione, un artista che sapeva portare maschere e costruire personaggi in grado di mettere in discussione ogni approccio normale e normativo all’idea stessa di identità. Parlare della musica di Bowie come teatro significa in realtà tradurre il suo discorso artistico in una sorta di “dialogo tra dialoghi” in cui la musica interroga altri linguaggi artistici e in cui l’immagine, la parola letteraria e il suono (musicale) si ridefiniscono a vicenda.

Sin dagli inizi della sua carriera, negli anni della Swinging London, Bowie manifesterà la sua insofferenza rispetto alle pretese di autenticità del rock coevo. Bowie aspirava al contrario a un’arte che potesse porsi come vero e proprio elogio dell’artificio. Nel 1967 avvenne l’incontro seminale con Lindsay Kemp, il celebre mimo scozzese che, oltre a formare Bowie in senso teatrale, lo introdusse alla cultura queer di quegli anni. La serietà decadente di Kemp spinse Bowie a costruire la sua carriera in termini di distacco ironico rispetto a ogni singola performance. In realtà agli inizi della sua vicenda artistica, per sentirsi a proprio agio, cercò di nascondersi dietro una maschera, adottando uno stile di recitazione basato su un’economia gestuale con cui riusciva a comunicare al suo pubblico che quello che stava facendo non era altro che mettere in scena un ruolo, una performance da decostruire.

Un’altra influenza fondamentale sarà lo stile (e il design) orientale; come in Wilde, l’Oriente divenne possibilità di pensare e presentare l’androginia come una sorta di iperstilizzazione basata su fantasie trasgressive su creature mono o bisessuate. Alcuni degli abiti di Ziggy Stardust erano stati creati dal giapponese Kansai Yamamoto, mentre i migliori scatti del periodo glam furono firmati da Masayoshi Sukita. Bowie – che nel 1964 aveva lavorato per un’agenzia pubblicitaria londinese – aveva già compreso, durante la campagna in difesa dei Long-Haired Men, che costruendo un’immagine in cui si confondessero il maschile e il femminile poteva riuscire a catalizzare l’attenzione dei media. Nel suo periodo glam, il cantante capì come il corpo vestito fosse letteralmente in grado di “riscrivere” il genere; il suo gender bending divenne così liberatorio per un’intera generazione.

Bowie fu in grado di creare un’estetica diversa per ogni album, muovendosi da uno stile all’altro, fondendo gli elementi più diversi. La filosofia orientale lo aveva portato a considerarsi un empty vessel da ridefinire ogni volta in modo diverso; eppure i changes, le scelte e le mutazioni furono dettati anche dal mercato, in un processo in cui paradossalmente sperimentazione avanguardistica e successo di massa finirono per coincidere.

Nella costruzione visiva delle sue maschere – da Ziggy Stardust ad Aladdin Sane, da Halloween Jack al Sottile Duca Bianco, da Pierrot all’artista mainstream in Let’s Dance – un ruolo centrale fu giocato, oltre che dalla fotografia, anche dalla televisione e dal cinema; è opportuno qui ricordare, oltre alle apparizioni a Top of the Pops e al film su Ziggy Stardust, che Bowie fu un attore straordinario, in pellicole culto quali L’ uomo che cadde sulla terra (1976) e Furyo (1983). Un discorso a parte meritano i video girati tra il 1979 e il 1985 in pieno boom Mtv; se come sostiene Chambers “le canzoni di Bowie erano dei piccoli film”, i video di questo periodo, oltre ad avere una finalità commerciale, erano in grado di sviluppare o ridefinire alcuni personaggi, ponendosi, con la loro enfasi sull’idea di processo, come commento e racconto per certi versi autobiografico. Si tratta di esercizi intertestuali in grado molto spesso di eccedere la musica, come nel video di Look Back in Anger (1979) con i suoi riferimenti a Il ritratto di Dorian Gray di Wilde.

La performance che diventa “scrittura”

Ogni performance visiva e musicale di Bowie appare dunque un esercizio di “scrittura”, e lui stesso può essere considerato un “testo” culturale che esige un complesso esercizio di lettura. Anche i testi delle canzoni presentano una dimensione teatrale, grazie alla loro capacità di “risuonare”, come avrebbe detto Michail Bachtin, della parola altrui. Il primo Bowie, vale a dire quello che scrive la celebre Space Oddity (1969), era un avido lettore di fantascienza e nello specifico di autori (Philip K. Dick, Ray Bradbury, Isaac Asimov) in grado di articolare un messaggio filosofico. Space Oddity fu la risposta a 2001: Odissea nello spazio di Kubrick; il film in realtà era tratto dall’omonimo romanzo di Arthur C. Clarke che colpì molto il giovane cantante per il senso di isolamento e alienazione che emergeva dalle pagine; questo stesso senso di alienazione doveva caratterizzare un altro celebre brano del primo periodo, ossia The Man Who Sold the World ispirato alla novella The Man Who Sold the Moon di Robert A. Heinlein, nonché al Jack Kerouac di Sulla strada.

Se il personaggio di Ziggy sarà scritto con un approccio pienamente teatrale, la sua estensione, ossia Aladdin Sane e in particolare due dei brani inclusi nell’album (Watch that Man e Aladdin Sane) risentono dell’influenza di un romanzo di Evelyn Waugh, Corpi Vili (1930), che descrive una Londra prebellica e pre-apocalittica abitata, per dirla con le sue parole, da “gente frivola, decadente e stupida”. Diamond Dogs (1974) fu invece inizialmente pensato come un musical su 1984 di Orwell, ma la vedova di Orwell non avallò il progetto. Tuttavia qui Bowie fu in grado di creare un paesaggio verbale e musicale in grado di tradurre alla perfezione – anche grazie a una tecnica di cut-up che rimanda a William Burroughs – i contenuti orwelliani, come si evince dalla title-track e da brani come 1984 e Big Brother. Con Station to Station (1976) Bowie dismise definitivamente le sue maschere glam, si trasformò nel Sottile Duca Bianco, figura che se da un lato rimanda al suo interesse per l’immaginario nazista dall’altro si pone come riferimento al Duca di Milano, Prospero, protagonista di La Tempesta, ultimo dramma o meglio romance di Shakespeare. L’intenzione teatrale lo portò qui a operare una sintesi di tutte le sue influenze e a un elogio dell’idea stessa di arte come processo.

bowie

Sarà, insieme ad altri fattori, la lettura di Christopher Isherwood, con le sue descrizioni della Berlino prebellica, a spingere Bowie a trasferirvisi nel 1976 e a “riscrivere” la città nei suoi tre capolavori pensati con Brian Eno, vale a dire Low, “Heroes” e Lodger (i primi due 1977, il terzo 1979). Negli anni ottanta e novanta si misurerà con due scrittori che avranno in contesti diversi la capacità di raccontare con grande efficacia le culture giovanili: nel 1986 comporrà alcuni brani per la colonna sonora della versione filmica del romanzo Absolute Beginners di Colin MacInnes, ambientato nel 1958, mentre nel 1993 scriverà la colonna sonora dell’adattamento televisivo di Il Budda delle periferie di Hanif Kureishi, ambientato negli anni settanta. Nel 1995 pubblicherà, invece, un concept album molto complesso, 1. Outside, influenzato dal romanzo di Peter Ackroyd Hawksmoor (1985).

La voce di Bowie, quando il suono diventa teatro

In Bowie i testi, sebbene molto densi e allusivi, rappresentano solo una componente del suo discorso musicale: si tratta di narrazioni parziali che hanno bisogno di una forma diversa di scrittura, che è quella sonora. La testualità del pop, come hanno dimostrato studiosi come Franco Fabbri, Philipp Tagg e Simon Frith, eccede il verbale per includere elementi necessariamente performativi. E qui occorre misurarsi nuovamente con la dimensione corporea, in un processo in cui il suono diventa teatro. La voce stessa di Bowie è uno strumento destabilizzante e imprevedibile che ci fa pensare all’arte come forma di divenire, capace d’ironia. Il cantante enfatizza volontariamente la sua voce utilizzando inflessioni spesso esagerate, grottesche, per far comprendere al pubblico che ogni sua canzone è una performance consapevole. Bowie, in breve, non fa che mettere in scena la sua voce. Di qui l’uso del falsetto e i salti di ottava con cui giocare con l’identità di genere o le alterazioni elettroniche che sin dai tempi di The Laughing Gnome ci proiettano in una sorta di palcoscenico sonoro.

C’è poi nell’opera dell’artista inglese una componente drammatica essenziale che è data dal dialogo tra il cantante e i suoi musicisti. Nella sua capacità di articolare un sound pluristilistico e pluridiscorsivo, Bowie è riuscito a dialogare con paesaggi e personaggi sonori imprevisti e imprevedibili. Si va dalle inflessioni spagnole di The Man Who Sold the World pensate da Visconti, al pianismo free di Mike Garson in Aladdin Sane, dalle sonorità liquide dei sintetizzatori di Eno in Low e “Heroes”, ai virtuosismi chitarristici di Robert Fripp in Scary Monsters, dalle ritmiche disco di Let’s Dance al chitarrismo drammatico di David Torn in Heathen sino a giungere al sassofono libero e imprevedibile di Donny McCaslin in Blackstar, pubblicato due giorni prima della sua scomparsa. Qui Bowie metterà in scena la sua stessa fine attraverso un album che, paradossalmente, grazie al sound aperto, caratterizzato dalle intuizioni improvvisative dei musicisti e dalla sua straordinaria performance vocale, sarà in grado proprio di eccedere ogni idea di chiusura e conclusione.

L’eredità forse più importante di Bowie è nell’esser stato in grado di far capire al suo pubblico che la musica – in quanto immagine, parola e suono – altro non è che uno spazio teatrale il cui senso risiede proprio nella risposta, nella comprensione rispondente e soprattutto “affettiva” (come si è visto in questi ultimi mesi) da parte dei suoi ascoltatori, che, tra sound and vision, finiscono per diventare i veri protagonisti del suo discorso musicale.

pierpaolo.martino@uniba.it

P Martino insegna letteratura inglese all’Università di Bari