Robin D.G. Kelley – Thelonious Monk. Storia di un genio americano

È già difficile suonare 88 tasti

recensione di Simone Garino

dal numero di aprile 2017

Robin D.G. Kelley
THELONIOUS MONK
Storia di un genio americano
ed. orig. 2009, trad. dall’inglese di Marco Bertoli
pp. 806, € 22
Minimum fax, Roma 2016

“Signor Monk, secondo lei i tasti del pianoforte, ottantotto, sono abbastanza? Ne vorrebbe di meno? Di più?”.“Bè, è già difficile suonarne ottantotto”.

Robin D.G. Kelley - Thelonious MonkSe di certo è arduo condensare il proprio vissuto nello spazio di sette ottave e una terza minore, non è impresa altrettanto semplice concentrare la vita intera di una persona, per giunta uno dei più importanti artisti del Novecento, nello spazio di qualche centinaio di pagine.
In questo senso, definire monumentale l’opera di Robin Kelley è quasi riduttivo. Frutto di oltre quattordici anni di ricerca, uscita negli Stati Uniti nel 2009, e ottimamente tradotta per Minimum fax (una piacevole consuetudine, questa, per la casa editrice romana) da Marco Bertoli, Thelonious Monk. Storia di un genio americano è con ogni probabilità  (forse con l’unica eccezione di Blue Trane di Lewis Porter, tra l’altro anch’essa uscita in Italia per Minimum fax) la biografia più completa ed esaustiva che sia mai stata scritta su un musicista americano.
Partendo dalle vicende degli avi del pianista sullo sfondo della North Carolina schiavista, l’autore traccia un profilo dell’artista giorno per giorno. Le fonti sono molteplici, dalle critiche e dai profili giornalistici ai ricordi di familiari – in particolare la moglie Nellie e il figlio Thelonious “Toot” Monk Jr, che ha a messo a disposizione dell’autore diversi documenti inediti –  amici, colleghi e semplici conoscenti. Addirittura, alla fine del volume troviamo quasi centocinquanta pagine di note: praticamente un libro nel libro, che testimonia l’incredibile lavoro di ricerca svolto da Kelley.
La fase dell’apice della carriera di Monk è un incessante susseguirsi di viaggi e concerti, e in effetti l’autore sceglie, in un sorta di parallelismo, di rendere la frenesia di quegli anni con un elenco senza soluzione di continuità dei suoi ingaggi e dei suoi continui spostamenti. Certo rimane più interessante la prima parte, quella in cui il giovane Monk cerca faticosamente di farsi strada – in particolare il fondamentale periodo del Minton’s, il leggendario locale di Harlem che per un periodo fu la vera e propria fucina creativa dell’artista –  e soprattutto di suonare la sua musica. La prosa fluente e sciolta di Kelley guida comunque costantemente il lettore fino ai capitoli finali, dove il ritmo della vita di Monk rallenta, fino all’acuirsi degli episodi depressivi, al ritiro dalle scene e all’esilio autoimposto nel New Jersey, a casa dell’amica di sempre, la baronessa Pannonica de Koenigswarter.

Uno dei principali meriti di questo lavoro è la decostruzione della figura di Monk come idiot savant. “Cappellaio matto”, “Gran Sacerdote del bebop”, o più semplicemente “eccentrico” (parola che Monk detestava) sono le principali etichette che la stampa più o meno specializzata ha affibbiato di volta in volta all’artista, complici i comportamenti spesso solo apparentemente privi di logica. Un esempio in tal senso è rappresentato dai celebri “passi di danza” di Monk, che perlopiù avevano la funzione di istruire gli altri musicisti sul tempo dell’esecuzione e sul tipo di swing desiderato dal leader. Kelley peraltro formula la suggestiva ipotesi che lo sviluppo della performance art possa essere stato influenzato proprio dalle danze di Monk (il cui pubblico, specie nel periodo della residenza al Five Spot Café, era composto anche da esponenti dell’arte visiva, come Franz Kline e Willem de Kooning).

Un altro fulcro del libro è proprio il rapporto dell’artista con la stampa: la quantità di articoli riportati è di per sé un significativo compendio di storia della critica jazz e della sua influenza nell’ambiente musicale newyorkese: il primo contratto discografico come leader arrivò proprio in seguito a un’intervista, nel 1947. L’allora trentenne Monk era sulla scena già da diversi anni (e alcune sue composizioni erano già state registrate da altri gruppi), ma solo dopo un servizio sulla rivista “Downbeat” riuscì a ottenere l’attenzione dell’allora giovanissima etichetta Blue Note Records, lanciando definitivamente la sua carriera.

Rispetto al già citato Blue Trane di Porter, ricco di esempi musicali analizzati in profondità, Kelley dedica soltanto una pagina di appendice all’analisi formale del pianismo monkiano, scelta che lascia l’amaro in bocca agli addetti ai lavori, ma tutto sommato condivisibile, vista la mole  comunque ragguardevole, di informazioni contenute in questo libro, davvero imprescindibile per ogni appassionato di jazz.

simone.garino@gmail.com

S Garino è sassofonista e insegnante di musica