Ben Blushi – Otello, il Moro di Valona

Il doppio albanese di Venezia

di Shaul Bassi

dal numero di febbraio 2019

Ben Blushi
OTELLO, IL MORO DI VALONA
ed. orig. 2009, trad. dall’albanese di Elda Katorri,
pp. 359, € 19,
Mimesis, Sesto San Giovanni MI 2018 

“Otello fu il primo uomo nero ad approdare a Valona. Nel corso dei secoli il mare aveva portato in città ciclopi, che vivevano ancora nei brividi dei bambini, sirene verdi che annebbiavano la mente dei pescatori, uomini con la coda che scalavano le montagne”. In questo brano, che segna il passaggio del romanzo dalla prima parte veneziana alla scena albanese, il narratore dimostra di far sua la lezione della tragedia ispiratrice. Così come in Shakespeare il Moro si difende dalle accuse di magia nera davanti al senato di Venezia con le sue storie fantastiche di “Antropofagi, e di uomini cui la testa cresce / sotto le spalle” (Otello, I, 3), Ben Blushi ribadisce, con un analogo elenco di creature immaginifiche, che l’unica vera magia è quella della parola. La Valona del racconto, infatti, è tutt’altro che fiabesca: è un porto in guerra, invaso dalla peste e assediato dai turchi, un luogo di fame e paura, in cui convivono scienza e pregiudizio, ospitalità e ostilità, amore e sesso aggrovigliati a violenza e dolore. Valona è un doppio di Venezia, due città cosmopolite rivolte al mare, sulle cui somiglianze e differenze Otello, straniero ad ambedue, continua a rimuginare fino al momento in cui si troverà a dover sceglierne una sola. Lo scrittore e uomo politico Ben Blushi, che con questa affascinante opera tradotta da Elda Katorri ha vinto il premio letterario dell’Unione Europea nel 2014, arricchisce una lunga tradizione di riscritture romanzesche di Shakespeare.

Personaggio tra i più enigmatici, Otello costringe da secoli attori e registi a fare i conti con il mistero del suo passato e a reinventarne continuamente storia e identità. Molti autori hanno approfittato del più ampio respiro della forma romanzo per riempire questi vuoti con biografie alternative. C’è chi, come il sudanese Tayeb Salih in La stagione della migrazione a Nord (Sellerio, 1992) ne dissimula la trama shakespeariana in una trama coloniale; chi, come Caryl Phillips, in La memoria del sangue (Imprimatur, 2015), scrive una sorta di prequel alle vicende del dramma; e chi come Tracy Chevalier, nel recente Il ragazzo nuovo (Rizzoli, 2017), traspone la vicenda agli Stati Uniti dei nostri giorni sottolineando l’attualità del tema interrazziale. Diversamente da questi (e forse grazie alla propria eccentricità rispetto al canone inglese) Blushi non ha remore a usare personaggi e nomi originali per poi ridisegnarne storia e geografia. Da anglista e non da esperto di letteratura albanese, trovo in questa apparente infedeltà proprio un fedele omaggio all’originale. Shakespeariana è infatti la libertà che Blushi si prende con le fonti: senza togliere al lettore il piacere di farsi sedurre dal ritmo lento e avvolgente della storia, diremo solo che qui Otello non è un veterano dei campi di battaglia che arriva a Venezia da esperto ufficiale, ma uno schiavo bambino regalato alla piccola Desdemona, il cui fratello Iago svolge un ruolo secondario nella vicenda. Shakespeariano è forse anche il diffuso anacronismo, che fa apparire in questo tardo Trecento ritratti di nudi femminili sulle pareti dei palazzi veneziani e cioccolatini sulle loro tavole, ritraendo nel medico albanese Stefano Gjika più uno scienziato contemporaneo di Vesalio e di Harvey che un dotto medievale.

Shakespeariana, infine, è l’abilità dell’autore di prelevare dalla tragedia alcune immagini figurate sviluppandole e declinandole poi in vere e proprie azioni romanzesche. Nella prima scena della tragedia Iago paragona Otello a uno stallone, per evocarne l’animalità agli occhi dell’inorridito padre di Desdemona; Blushi lo trasforma letteralmente in cavallo, umiliato e seviziato dai suoi compagni di cattività a Valona. I dieci anni che Otello trascorre in Albania lo vedono infatti solo brevemente nelle attese vesti di guerriero che sfida gli ottomani; per la maggior parte del tempo egli appare come personaggio passivo, prigioniero, sofferente, vittima di perversi esperimenti scientifici e di crudeli torture, bersaglio di oscuri pregiudizi e obbiettivo di seduzioni maschili che aggiungono un’altra dimensione molto originale a un romanzo lirico, cruento e sensuale. L’ombra del XXI secolo aleggia di continuo, senza mai diventare presenza ingombrante o didascalica, su questo Mediterraneo antico. Leggiamo di un migrante sempre diviso tra l’irriducibile singolarità del proprio vissuto (con i suoi ricordi nostalgici, i suoi strazianti innamoramenti, i suoi dilemmi e le sue azioni fatali) e gli stereotipi che gli vengono, anche letteralmente, cuciti addosso. Ora come allora, lo straniero desidera essere se stesso, ma deve combattere senza sosta con i fantasmi che la società gli proietta addosso: “La gente voleva Otello, ma odiava il Moro”.

bassi@unive.it

S. Bassi insegna letteratura inglese all’Università Ca’ Foscari di Venezia