I finalisti: la varietà delle forme narrative e le novità dei temi | Premio Calvino

La varietà delle forme narrative e le novità dei temi

di Mario Marchetti

Tra i 999 testi concorrenti ne sono stati selezionati dieci per la Giuria esterna e a un undicesimo (La pace sotto gli ulivi di Antonio Galetta) è stata assegnata la menzione speciale del Direttivo per un work in progress dal ricco potenziale. Quest’anno si è puntato, con un certo azzardo, a far emergere opere dai tratti spiccatamente innovativi per lingua, per struttura, per argomento. La forma narrativa, soprattutto, è varia e in pochi casi riconducibile alla forma romanzo strettamente intesa: docufiction, racconti che si inanellano, testi dai tratti saggistici, testi in cui è lo stile a farsi prepotentemente protagonista. Ci è parsa una scommessa interessante.

Le suggestioni tematiche prevalenti e di maggior interesse nei manoscritti concorrenti si possono individuare in un diffuso sentimento di precarietà sentimentale e sociale delle nuove, ma anche ormai medie, generazioni; nella sempre più intrusiva presenza della modalità web di relazione e di comunicazione, tanto da apparire, in certi casi, come l’unica reale e autentica; in un’attenzione empatica e insieme ossessiva per la malattia e le modificazioni esistenziali che comporta, in particolare quando tocca la memoria e la psiche; in un approfondimento degli aspetti dell’identità di genere; in un’indagine acuminata sulla violenza insita nei rapporti sessuali, soprattutto a scapito della donna; in un diffuso interesse per la dimensione pornografica dell’immaginario e, di conseguenza, dei comportamenti; nel carotaggio abrasivo dei rapporti genitori-figli; nello iato culturale sempre più ampio che si va creando tra giovani iperscolarizzati e vecchi che hanno dedicato la vita a garantire alla famiglia una sicurezza economica. Quello che ormai da tempo manca, e non sarà un caso, è il mondo del lavoro, della politica, della sociologia e tutto sommato anche quello della storia. Il futuro, se c’è, è distopia. Altro tratto generale è un’ispirazione letteraria che non fa praticamente più riferimento al retaggio novecentesco italiano, ma che si richiama, se mai, agli scrittori contemporanei nordamericani e, in ogni caso, alla produzione narrativa sincronica. E, ancora, molto presente è l’esperienza immersiva nella musica, spesso metal ed elettronica, che finisce col compenetrare a fondo il tessuto narrativo. Naturalmente tutto ciò tocca la struttura dei testi e, inevitabilmente, la lingua – che fa fatica a trovare una sua strada, spesso ricorrendo come arma, talora anche con buoni esiti, allo sporco del parlato o, per meglio dire, a quella neolingua nata dalla fine dei dialetti ma che i dialetti hanno fortemente influenzato, tuttavia non mancano tentativi opposti di creare una lingua ibrida fortemente colta ed erudita con contaminazioni di registro volutamente basso.

Ma veniamo più da vicino ai dieci manoscritti prescelti. Diciamo subito che abbiamo evitato di selezionare testi che fossero troppo mimetici di una presunta realtà soprattutto giovanile così come testi programmaticamente consolatori o commerciali, per quanto ben confezionati. Trovare tra di essi un filo comune non è agevole. Tutti però affrontano, magari in chiave indiretta, nodi esistenziali o tematici di rilievo. Iniziamo con il distopico e insieme fantascientifico L’uomo che ha venduto il mondo: in questa storia di un geniale fisico che vuole dare un futuro diverso alla donna amata vittima di un investimento si ricorre al classico espediente di intervenire sul passato per modificare il futuro. Ma le conseguenze non saranno quelle previste: nel cielo comparirà una misteriosa riga foriera di un intirizzimento del mondo. Sono chiare le allusioni alla hybris umana che ciecamente si affida all’onnipotenza della scienza e della tecnica. Darà il suo contributo al disastro, ma anche a una possibile salvezza, un capriccioso dio-bambina. Un testo intelligente e complesso. Cambiamo totalmente registro con Le tracce del fuoco, un’accattivante narrazione che sfiora la fiaba, protagonista la bambina Alice nel suo viaggio attraverso le Alpi Marittime alla ricerca dell’amato padre scomparso – per lei un mito, diversamente dalla madre. Il punto di vista è persuasivamente infantile e il tema è quello dei ruoli e dei delicati rapporti educativi nell’ambito della famiglia, oggi profondamente modificati. Con Rattatata entriamo in un altro percorso finzionale collegabile, però, al precedente per la felicità narrativa. Il protagonista è uno scrittore assillato da quale forma letteraria dare alla propria opera. Nascerà così un romanzo di racconti ispirati ai suoi incontri casuali. Inedita e umanamente ricchissima è l’immagine che per tal via nasce di una Roma marginale insediata nelle anse del Tevere, cui fa da controcanto una drammatica e potentissima epica dei ratti che vivono sulle rive del fiume immersi in un’impietosa lotta per l’esistenza: lo sguardo dell’autore sembra voler accomunare le due specie in un destino comune. L’ultimo spezzone di questo singolare artefatto ci porta in una bizzarra clinica dove si cura amorevolmente la perdita della memoria. Tema, quello delle patologie psichiche, che torna in altri due manoscritti. Innanzitutto in Altro nulla da segnalare. Storie di uccelli, una docufiction che fotografa con straordinaria efficacia le vite di una serie di persone che hanno avuto a che fare nel corso dei primi anni ottanta col repartino aperto, funzionante presso l’Ospedale Mauriziano di Torino su ispirazione basagliana. Si apre così uno squarcio bello e terribile sulla storia sociale del secondo dopoguerra, ma risalendo anche oltre. “Altro nulla da segnalare” è la clausola di rito dei rapportini quotidiani degli infermieri, dai quali l’autrice parte per le sue struggenti biografie di uomini non illustri. E poi Noi non siamo la risposta: questa volta un vero, denso e ramificato romanzo con una storia e dei personaggi, dove, sul rumore e motore di fondo di un’umbratile love story tra il catafratto protagonista – medico curante, reduce da una famiglia disfunzionale – e un suo paziente, si mette in scena, in una misteriosa e tufacea Posillipo, un’altra bizzarra clinica dove si curano i disturbi fittizi, ovvero le false malattie del corpo, ma autentiche patologie della psiche – disturbi che sono un grido contro la solitudine e il disamore. La gioia avvenire ci immette in un’altra impostura, quella di una psicanalista che espone a un giovane avvocato il caso della violenza da lei subita a quattordici anni, presentandolo come avvenuto a una sua cliente. Eccellente la conduzione del dialogo da cui emerge a poco a poco la verità, ma anche il rimosso, la complessa trama dell’accaduto e del meccanismo seduttivo. La donna, se da una parte si sente – per quanto immeritatamente – in colpa, dall’altra vorrebbe trovare risarcimento in un processo. Ma questo non potrà più tenersi, siamo fuori tempo massimo e la gioia non potrà che essere avvenire. Con L’età delle madri, in un certo senso, il quadro si capovolge. Il protagonista è un sedicenne che, volendo dimostrare di non essere più un ragazzino, si introduce nella vita di due donne adulte, madre e figlia, ma sostanzialmente adolescenti, in un gioco di reciproca attrazione che non conosce età. Affascinante è il dipanarsi della vicenda sulla soglia dell’onirico. Il lettore deve stare alle parole della voce narrante: ma sono attendibili? Certamente attendibile è la legge del desiderio e il desiderio di riconoscimento. Desiderio di riconoscimento (e di amore) che, sotto la trasgressività di superficie, appartiene anche al transessualizzato protagonista dell’Educazione sentimentale di Guglielmo Sputacchiera, un suicidato sociale dei nostri tempi – quasi laureato in inutili discipline umanistiche e ovviamente senza lavoro – inchiodato alle chat erotiche nel contesto di un asfittico e microborghese hinterland ambrosiano. Il tema portante qui, insieme al profilo del maschio (come scrive Albinati: “Il maschio non è qualcuno che è maschio, ma qualcuno che deve esserlo”), è quello del porno, odierno “inconscio artificiale e collettivo”, attorno a cui l’autore sviluppa un incisivo mini saggio. La musica, intesa come materia sonora con la quale vivono in fusione le nuove generazioni di otodipendenti, è al centro dell’audacemente innovativo Non nella Enne, non nella A, ma nella Esse,che ricostruisce su base documentaria e d’invenzione la biografia del giovane Nicolás Jaar, stella della musica elettronica contemporanea. A narrarla con lingua fiammeggiante è l’amico del cuore Andrés, quasi un amore. E, infine, la sofisticata silloge di racconti Le piacevoli favole, il cui filo rosso è lo stile attraverso cui si proclama non solo il rifiuto dell’odierna narrativa di consumo con la sua lingua facilitata e corriva, ma, obliquamente, tutto un modo conciliato di concepire l’esistenza. La stessa struttura del testo è un azzardo affiancando a quattro pezzi fantastici, tra il liberty e il calviniano, tre pezzi di ispirazione realistica, pur sempre sottoposti a uno spiazzante ritocco espressivo.

Gli stili e le scritture sono mediamente di buon livello, per coerenza e capacità di evocazione: si va dalla cifra ricercata delle appena citate Piacevoli favole con i loro intarsi anticati, ma talora anche gergali, alla prosa elegante di Rattatata e a quella sintetica con accensioni liriche di Altro nulla da segnalare. Storie di uccelli (salvo nelle parti saggistiche del testo); dalla lingua spigolosa ed espressionistica della Gioia avvenire a quella “alta e stramba” (come dichiara l’autore stesso nella sinossi) dell’Educazione sentimentale di Guglielmo Sputacchiera fino a quella avvolgente e lisergica di Non nella Enne, non nella A, ma nella Esse; dalla prosa corrente, moderna senza ricercatezze, dell’Uomo che ha venduto il mondo nonché delle Tracce del fuoco, a quella ironica e insieme melò di Non siamo la risposta fino a quella fresca sporca e un po’ ubriaca dell’Età delle madri.

Ci auguriamo che le nostre proposte, talora spiazzanti, trovino riconoscimento.