Oana Rodica Alexandrescu – Il capello

Era decisa. Guardò il proprio riflesso con un’espressione più minacciosa del solito. Il capello bianco spuntava dal centro della testa, fiero. La donna, proprietaria di un paio di pinzette – le più precise che aveva trovato –, sollevò in aria il lucente capello, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, lo immobilizzò con le estremità appuntite e applicò la forza necessaria a strapparlo. Il capello oppose resistenza. «E se…» pensò la donna, colta da un subitaneo, ultimo dubbio. Rifletté sulle volte che quello l’aveva sfidata con la sola presenza candida nel resto della chioma corvina. «Non esisterai prima dei quarant’anni» disse al riflesso nello specchio, convincendosi a proseguire.

Il capello fu strappato. «Un dolore sopportabilissimo». Lo raccolse nel palmo della mano. Non se ne accorse, non in quel momento, ma il riflesso si mosse con un lieve ritardo nei movimenti. La donna nello specchio aveva perduto un ricordo e se n’era accorta. Perché l’altra continuava come se nulla fosse?

Il mattino dopo, mentre si lavava i denti, la donna si accorse con orrore di come il capello fosse ricresciuto identico al giorno precedente. Accanto, un secondo, lungo e bianco, faceva compagnia al primo. Con la schiuma ancora alla bocca, afferrò le pinzette e ne strappò uno. «Vediamo se osi ricrescere ancora». Strappò poi anche l’altro. Li pose entrambi in un vaso di vetro, assieme a quello del giorno innanzi. Il riflesso si mosse più lento: stavolta, se l’avesse guardato, l’avrebbe notato anche lei. La donna però non guardò. Uscì di casa e si dedicò agli impegni della giornata dimenticandosi dell’accaduto.

L’orrore riaffiorò in tutta la sua potenza il mattino successivo. Nello specchio, il volto della donna si stupì di uno stupore rapido, istantaneo; cosa che il riflesso tardò a mostrare; gli occhi della donna però erano così concentrati sul biancore ostinato dei nuovi capelli – quasi fossero animati da uno spirito vegetale, notturno – che mancò di notarne la lentezza. Vide soltanto i capelli. «Quattro». Una precisione matematica faceva sì che ne crescessero il doppio di quelli tolti il giorno prima. Quando depose nel vaso i nuovi estirpati, poté distinguere quale fosse il primo, il quale riluceva d’un fulgore argentino.

«Perché li conservo?».

Esaminò la chioma a lungo, partendo dalle tempie. Non vi era altro luogo – se non sulla sommità della testa – dove i capelli avessero iniziata la loro bizzarra rivolta. La donna si sentì presa d’assalto. Si guardò fissa nelle pupille prima di dire «Non avrete scampo». Nel momento stesso in cui si voltò per uscire dal bagno, il riflesso le fece, di rimando, un’espressione di stupore. Ma la donna non la notò. La rabbia per quella stranezza inspiegabile l’aveva distolta dallo specchio.

Nei giorni successivi, i capelli bianchi continuarono a spuntare – come certi bulbi in primavera –, in un’esplosione di lucentezza, folta e selvatica; alcuni capelli avevano la pretesa di imitare un’andatura curvilinea, di certi boccoli malfatti che appassiscono al primo tocco. Più la donna s’intestardiva a strapparli e più il suo doppio perdeva luminosità. Oltre a essere – oramai – visibilmente rallentato, il riflesso risultava spogliato di qualcosa. Se nella donna gli occhi, per quanto carichi di irascibile spirito, mantenevano intatta la vitalità di sempre, la sua immagine manifestava, al contrario, i segni di una morte imminente. Gli occhi apparivano vitrei e manchevoli di una qualsiasi speranza, mentre gli angoli della bocca tradivano una stimolazione eccessiva, a tratti vibrante. Incontrollabile. E la pelle, tutta, aveva un colorito inusuale da lampada alogena. Un colorito stanco. Il riflesso guardò la donna a lungo, senza rispondere ad alcuno dei suoi movimenti.

I capelli bianchi, dominati quotidianamente da quel primo, spiccante tra tutti – era questa l’impressione che la donna provava ogni mattino –, erano diventati decine, poi centinaia. A forza di strappare, al centro della testa si era formato un vuoto, un pezzo di pelle che esauriva tutte le sue energie. La donna era ossessionata dal bianco, un rivolo che risorgeva dalle profondità del corpo.

«Perché,» si chiese, «perché proprio a me?».

Il riflesso avrebbe voluto dirle che non c’entrava lei in quanto persona, che era una questione riguardante il tempo, ma – rispetto alla donna – poteva solo pensare. E più fantasticava, più si ritrovava privo di idee. Si avvide di essere non solo lento, col passare delle settimane, ma – soprattutto – di non coincidere più con la donna oltre lo specchio. I loro ricordi, anche visivi, non erano più gli stessi. Come si chiamasse, quanti anni avesse, com’era il volto della madre… non riuscì a darsi alcuna risposta. Pensò a un modo per interrompere quello scempio dei ricordi; la donna origine non le badava. Allora, non gli rimase che opporsi: scegliere di non mostrarsi, sostare in quegli spazi, tra uno specchio e l’altro, o tra le tante superfici riflettenti che avrebbe incrociato oltre la soglia di casa.

«Mi rifiuterò di apparire! Ecco, qualcosa di concreto… applicabile» pensò il riflesso.

Il vaso iniziale fu sostituito. All’interno, la matassa dei capelli asportati viveva una vita propria. Sembravano, ciascuno di loro, percorsi dalla luce, come se lungo il fusto circolasse qualcosa. La donna sapeva benissimo che non era possibile, «I capelli sono materia morta». Eppure, non smise di guardare con avidità la massa aggrovigliata.

«Dove potrei gettarli?» si chiese il giorno che volle interrompere quella stranezza. Provò quasi paura all’idea di sbarazzarsene. Nemmeno finì il proprio pensiero che il terrore s’impadronì di lei. Le mancò il fiato e le mani si piegarono su sé stesse facendole perdere la presa sul vaso. Per miracolo non cadde sui frantumi di vetro. Capì, come solo un essere immobilizzato dal terrore può capire, che non poteva disfarsi dei propri capelli. Perciò li tenne – sentendosi pressoché costretta –, ammucchiando quel candido nido sul fondo di un nuovo vaso. Il primo capello spiccava tra tutti gli altri, diventati ormai migliaia.

«Te ne starai lì per sempre» gli disse, come se quello potesse intendere.

Il vuoto sulla testa della donna divenne enorme. Talvolta lo toccava, in attesa che, dalla pelle calda e liscia, potesse avvertire qualcosa. Aveva cambiato pettinatura, ma di giorno in giorno quel vuoto le pareva più visibile, nonostante il riporto. Coloro che discorrevano con lei, pensava, la guardavano in un modo del tutto particolare. Un giorno si sentì come nuda mentre un impiegato della posta le stava parlando. Scappò dall’ufficio e cercò d’intrufolarsi nel bagno di un ristorante. Un cameriere le corse dietro.

«Signorina, ma cosa fa? Non siamo ancora aperti!».

La donna non aveva udito niente. Si era precipitata in fondo alla sala e cercato, d’istinto, quale fosse la giusta direzione verso il gabinetto.

«Fa’ che ci sia uno specchio…» disse ai gradini, mentre li percorreva.

Nell’antibagno la luce era spenta. Tastò le pareti finché non trovò l’interruttore. Vide il lavello, il rubinetto ad arco, lo specchio. Fece un sospiro di sollievo; un primo passo, poi un secondo. Si trovò, infine, di fronte allo specchio. E nello specchio vide l’antibagno deserto: di lei non c’era alcuna traccia. Pensò di essere troppo stanca. Chiuse gli occhi, portò le mani sopra alla testa, scoperchiò il vuoto liscio liberandolo dai capelli; d’improvviso le parve che la pelle pulsasse. Aprì gli occhi. Niente. Nello specchio non c’era segno di lei. Come se non esistesse. Si mosse, fece un passo indietro, saltò, si nascose sotto al lavello quasi a voler ingannare la propria presenza. Lentamente si alzò. Fissò lo spazio riflesso dietro di sé. Cercò di tastarsi, di assicurarsi che fosse intera nonostante quella mancanza evidente. Le spalle c’erano, il collo anche; i capelli: tutti. Il vuoto creato al mattino pure.

«Dove sei andata?».

Iniziò a risalire i gradini.

«Signorina…» tentò il cameriere vedendo comparire una donna dall’acconciatura particolarmente insolita.

La donna uscì dal ristorante senza salutare.

Arrivata a casa controllò tutti gli specchi. Aprì l’armadio, andò nel bagno, si affacciò nello specchietto tascabile lasciato in una borsa. Non c’era superficie che le rimandasse il proprio riflesso.

«Forse basterà attendere…» si disse.

Prese una sedia della sala e si sedette davanti all’armadio aperto. Fissò a lungo lo spazio sgombero della propria camera. E poi si addormentò, seduta com’era.

Il riflesso comparve poco dopo. Molto più lentamente della donna, ripeté ogni suo gesto. Fece capolino nello specchio del bagno, in quello da tasca sul sofà. Infine, prese posto sulla sedia nell’armadio, facendole da doppio. Iniziò a osservare la dormiente. Non le somigliava per nulla. Pareva più anziana di come la ricordava, invecchiata a sua insaputa. Il vuoto lasciato dai capelli strappati, inoltre, le dava un’aria bizzarra, a metà tra l’infantile e il demente. Sapeva bene che se la donna si fosse destata avrebbe visto un’altra persona al suo posto. Pensò intensamente «Svègliati». Ma nulla accadde. Dato che la donna dormiva non aveva più gesti da ripetere, tranne chiudere gli occhi. Mentre abbassava le palpebre, si domandò se l’avrebbe rivista ancora; se l’averlo atteso era stato un atto volontario. «Chissà che non capisca, finalmente».

Al risveglio, il mattino dopo, la donna vide il riflesso addormentato nello specchio dell’armadio. Non vi si identificò. Non subito. Colei che vedeva dormire aveva tutti i capelli bianchi. Non poteva essere lei. Per quanto strappati, a lei – se lo ricordava benissimo dal giorno prima – ne restavano in quantità di lunghi, lisci e, soprattutto, neri. Portò le mani alla testa. La lacuna sulla sommità era scomparsa. Invece, carezzò i propri capelli come non li aveva mai toccati prima; ne prese alcuni tra i polpastrelli, a uno a uno, dall’attaccatura del cuoio capelluto fino all’apice; la folta chioma era tutta là, intera. Solamente allora notò, tra le dita, di tenere dei capelli bianchi. Ne allungò, davanti agli occhi, svariate ciocche e ogni volta ne vide soltanto di bianche. Non un singolo capello nero.

La donna nello specchio stava ancora dormendo. Era pallida, sembrava che portasse su di sé una stanchezza millenaria. Se quella visione era davvero la sua immagine, pensò, non vi si riconobbe. Sull’avambraccio scoperto del riflesso notò una cicatrice. La stessa era presente anche sul proprio. Ma la donna non ne aveva alcuna memoria. «Che strano non ricordarsi di alcunché».

Si sfilò le scarpe, si tolse gonna e calze, e si mise a guardare i propri piedi. Erano davvero i suoi? Quando erano comparsi i calli? E le vene varicose sui polpacci? Le ginocchia facevano da interludio tra le ossa visibili e la muscolatura scarna delle cosce. Un livido all’altezza delle anche. Arrivò a scrutare fino all’ombelico, un buco infossato in una pancia che le sembrò larga, senza tono, frastagliata da fitte smagliature opalescenti ai lati. Quel corpo le sarebbe stato più famigliare se fosse appartenuto a una sconosciuta. Ebbe una sensazione di disgusto immediata, avrebbe voluto strapparsi di dosso pelle e carne e capelli. Non vedere mai più quella figura inerme e magra sulla sedia.

«Perché sono diventata te?» domandò alla dormiente nello specchio che, però, non le rispose. Le mancava ancora molto tempo prima che la raggiungesse, nel reale, come doppio.

La donna andò in sala. Il vaso da fiori, straripante di capelli, era dove l’aveva lasciato. La copiosa matassa, invece, era più nera che in principio. Non un capello bianco. Nemmeno quel primissimo che era stato fino al giorno innanzi – l’avrebbe giurato – sfacciatamente altero e brillante.

«Che diavolo…» disse.

Tornò davanti all’anta spalancata: il riflesso era ancora là, sulla sedia. Si sarebbe detto il riflesso di una donna morta se non fosse stato per un lieve respiro tradito dal movimento regolare del petto.

Non seppe perché, ma qualcosa – in lei – le fece scegliere di aspettare. Aspettare che il riflesso si riallineasse a sé stessa.

«E terrò tutti questi dannati capelli bianchi».