Maaza Mengiste – Sotto lo sguardo del leone

Maaza Mengiste
SOTTO LO SGUARDO DEL LEONE
orig. 2009, trad. dall’inglese
di Anna Nadotti,
pp. 356, € 20,
Einaudi, Torino 2025

Passione e violenza della rivoluzione

di Marta Ferrero

Uscito inizialmente con Neri Pozza nel 2010 con il titolo Lo sguardo del leone, il romanzo d’esordio di Maaza Mengiste è stato ripubblicato da Einaudi con il nuovo titolo, più fedele all’originale Beneath The Lion’s Gaze e in una nuova traduzione curata da Anna Nadotti. Sempre per Einaudi, era uscito quattro anni fa il suo secondo romanzo Il re ombra (Cfr. “L’Indice”, 2021, nn. 7-8), ambientato durante la guerra d’Etiopia contro gli invasori italiani, con continui salti temporali che collegano il passato coloniale con le rivolte degli anni settanta. Due fasi della storia etiope che si avvicinano per instabilità, violenza, speranze tradite. Sotto lo sguardo del leone si concentra in particolare sul 1974 e sugli anni seguenti, attraversati da una grande rivoluzione che riesce a deporre l’imperatore, ma che dà spazio alla terribile dittatura del Derg comunista.

Come in Il re ombra Mengiste riesce a intrecciare con maestria e delicatezza la storia personale e intima dei personaggi e la storia dell’Etiopia (e dell’Italia), così in questo libro le vicende del dottor Hailu, della malattia di sua moglie Selam, delle relazioni che intercorrono con i figli Dawit e Yonas sono centrali nella narrazione. Tutti questi personaggi, e anche Sara, moglie di Yonas, assumono posture diverse fra loro di fronte ai tumulti che invadono l’Etiopia. In questo modo Mengiste mostra la complessità che si rivela a chi vuole cogliere anche ciò che risiede nei riflessi di una violenza così forte da non lasciare spazio alle sfumature. L’attenzione a descrivere una molteplicità di punti di vista si riscontra anche grazie all’alternarsi di capitoli focalizzati sui diversi personaggi: Hailu, Dawit, Yonas, Sara, Mickey, ma anche l’imperatore Hailé Selassié, diventano punti di osservazione privilegiati di un paese tormentato e caotico.

Durante la lettura, la sensazione costante che la storia del proprio tempo possa invadere, stravolgere, cambiare irrimediabilmente la propria vita rimane forte e chiara. La paura, la rabbia, il dolore affollano il romanzo, che è gremito di sensazioni forti, immagini crude e personaggi ostinati. Personaggi che non vengono rappresentati come degli assoluti né vittimizzati per la condizione in cui vivono. Anche se protagonisti di vicende strazianti, non sono vittime, ma restano portatori e portatrici di un orgoglio tutto etiope e di una forza quasi stoica. Ognuno, a modo suo, mostra la sua agency: Selam decide da sé di non prendere più medicine per accettare la sua condizione e smettere di combatterla; Hailu, credendo profondamente nel suo lavoro, lo vive come una vocazione profonda e come un atto di impegno per servire la sua Etiopia; Sara crede ferventemente in un Dio che dona molto a chi molto sacrifica, e dunque porta avanti con determinazione il suo voto doloroso; Dawit non riesce a non farsi coinvolgere dagli avvenimenti che devastano il suo paese, appassionato com’è degli ideali di giustizia e uguaglianza sociale che la madre gli ha sempre trasmesso, facendolo depositario dell’eredità di una famiglia guerriera. Dawit è un personaggio piuttosto interessante perché racchiude in sé la volontà e i sogni dei giovani, ben visibili durante una rivolta particolarmente intensa in cui diventa consapevole di appartenere a una grande comunità. Ma anche perché rappresenta la fragilità della gioventù, nonché la disillusione di fronte alle conseguenze inaspettate e terribili della rivoluzione. In questo personaggio si coglie poi un tema cruciale del romanzo che è la speranza come motore di cambiamento. Insieme alla speranza di un futuro migliore, anche l’amore è all’origine della rivoluzione: l’amore per il proprio paese, per i propri cari, per i figli dell’Etiopia.

L’attenzione per i luoghi è l’espediente con cui l’autrice richiama la storia coloniale italiana e valorizza il passato etiope, mostrando l’amore per la sua terra. Altro elemento ricorrente è la descrizione della dimensione di fede e di pratica religiosa dei personaggi. Mentre Selam, nell’affrontare la sua malattia, si abbandona nelle braccia del Padre, Sara sembra lottare con la volontà di Dio. Ma è l’imperatore che viene presentato come testimone di un cristianesimo molto sentito, che lo porta persino ad accettare la sua deposizione come volere di Dio, senza perdere l’orgoglio e la consapevolezza che la sua stirpe tornerà a dominare.

Colpisce poi la costruzione di personagge femminili complesse e sfaccettate, “non eroiche ma reali”, come afferma l’autrice stessa in un’intervista per l’inserto “tuttolibri” de “La Stampa”. Sebbene non eroiche, quelle di Mengiste sono donne resistenti e autodeterminate, come le figure femminili centrali nel romanzo successivo, Il re ombra.

Sotto lo sguardo del leone si apre con un’intollerabile violenza, mostrando il sangue di un giovane ragazzo nel punto dove è stato colpito da un proiettile. Alla violenza viene associata la passione della rivoluzione e la potenza della lotta per i valori di parità e giustizia. È la violenza che accompagna i cambiamenti, considerati da alcuni personaggi inevitabili dato il governo corrotto e autoritario precedente. Ma la violenza penetra nella rivoluzione e continua anche dopo la deposizione dell’imperatore Hailé Selassié, il 12 settembre 1974. La si può percepire nella crudeltà del maggiore Guddu che divide il mondo in buoni e cattivi e considera tutti i membri della famiglia reale come traditori, spingendo Mickey, amico e quasi fratello di Dawit, a compiere il suo dovere: ucciderli tutti senza pietà senza processo. Per chi credeva nella rivoluzione, questo esito è deludente e sconvolgente. Il futuro del Derg comunista inizia come una dittatura più spietata del governo dell’imperatore Hailé Selassié, insinuando il dubbio che non sempre si cambia per migliorare. Tuttavia, il canto di resistenza e coraggio posto al termine del romanzo dona la speranza in una forza di lottare che non si è spezzata.

marta.ferrero660@edu.unito.it
Ferrero insegna lettere nella scuola

Negoziare la propria umanità

di Carmen Concilio

C’è un momento in cui la storia bussa all’uscio e nulla più sarà mai come prima. Una famiglia piccoloborghese soffre il dramma dell’agonia di una madre e moglie amata, Selam, ormai terminale, a cui non giovano le cure che le somministra il marito medico rinomato, Hailu, non rassegnato a perderla. I due figli reagiscono in modo diverso, Yonas, sposato con Sara e padre della piccola Tizita, asseconda e accompagna sempre il padre al capezzale della madre. Dawit, più introverso, soffre rinchiudendosi a riccio e rivendicando un rapporto esclusivo con la madre, quasi di amicizia e complicità poiché lei, per aiutarlo a contenere la sua esuberante ira, da bambino gli aveva insegnato la danza dei guerrieri ereditata dal nonno, che aveva combattuto per fermare gli italiani in Etiopia. Dawit, contro la volontà paterna, si è già unito agli studenti in protesta contro il governo dell’imperatore Hailé Selassié, per chiedere riforme. Una vasta zona a nord del paese vive una siccità tremenda, i bambini sono denutriti e manca ogni cosa, compresi medicinali e vaccini. I soldati protestano poiché il loro rancio è scadente, mentre, si dice, i generali hanno un trattamento privilegiato. Scintille che deflagrano in violenze inaudite nel 1974. L’imperatore e gran parte dell’esercito – anche se molte figure sono romanzate nella finzione narrativa – vengono arrestati e ammazzati. I soldati che partecipano ai massacri vivono vite agiate, ma ricolme di senso di colpa: è il caso di Mickey, l’amico di Dawit, da cui d’ora in poi sarà diviso per sempre. Il caos del paese, una città, Addis Abeba, sotto assedio e coprifuoco, piena di spie e di nuovi sensali che estorcono tasse ed espropriano case, sembra quasi non poter più contenere neppure i drammi familiari, di chi si trova a dover curare malati, come la piccola Tizita che rischia la vita per una caduta mentre sua madre, per il dolore, si prostra su vetri infranti in un pellegrinaggio di penitenza che le scortica le ginocchia e le ferisce le gambe. La fede caratterizza questa famiglia di devoti, amati e rispettati dal vicinato. Il merito di questo romanzo non è solo la ricostruzione di fatti storici – il periodo del Terrore rosso (1976-78) e dei suoi strascichi sino al 1991 – ma l’aver dato voci e volti e l’aver attribuito valori a uomini, donne e bambini la cui storia di resistenza, personale, familiare e comunitaria è esemplare e restituisce dignità alle vittime di morte violenta, di torture indicibili – difficile e doloroso leggere, così come, immagino, tradurre, pagina dopo pagina –, subite da innocenti, da semplici cittadini che si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Maaza Mengiste è una narratrice nata, matura, pluripremiata sin dagli esordi, ed è quasi commovente trovare tra i ringraziamenti la menzione dello scrittore e attivista antiapartheid sudafricano Breyten Breytenbach, scomparso il 24 novembre 2024. Le sue parole, citate sul risvolto di copertina – “A volte la letteratura dice verità che la storia non può dire” – sono forse la miglior sinossi di questo romanzo. I due autori si erano incontrati al Salone del Libro di Torino nel 2010, sotto l’egida di Lingua Madre, quando si pubblicava per la prima volta Lo sguardo del leone (Neri Pozza, 2010) e una ristampa di Le veritiere confessioni di un terrorista albino (di un africano albino per Costa & Nolan, 1989; Le confessioni di un terrorista albino per Alet, 2010) di Breytenbach. Il suo incoraggiamento “a credere nelle proprie idee” nasconde una affinità tra di loro: saper guardare negli occhi la storia e raccontarla incarnandola in figure di una umanità violentemente provata, ma capace di rispondere, resistere, negoziare la propria verità e la propria stessa umanità.

Tutti nel romanzo compiono scelte difficili, tradiscono qualcuno o qualcosa, con il colpo di stato del Derg che spazza via una storia millenaria e dà il via a una guerra di resistenza sotterranea tra i carnefici e chi di notte a rischio della vita va a recuperare i corpi straziati e martoriati dei torturati, esposti e abbandonati nelle strade come immondizia, per offrire loro degna sepoltura, visto il divieto di celebrare funerali. Così una piccola comunità solidale di quartiere si compatta contro il male dilagante, che può sempre bussare alla porta. La traduzione di Anna Nadotti, che restituisce il senso del titolo originale inglese Sotto lo sguardo del leone, restituisce in realtà molto di più. A lei vanno i ringraziamenti di Mengiste stessa: “a Anna Nadotti che mi rivela le mie parole ad ogni traduzione”. Questo loro rapporto implica anche una comune fiducia nella lettura e nella letteratura, più che mai importante oggi, quando si vuole obnubilare il pensiero critico, la ricostruzione storica di un passato che ci ri-guarda (ricordiamo anche Il re ombra, Einaudi 2021, sull’occupazione italiana), di un sapere che ci in-forma e rischia di renderci un po’ più umani e consapevoli.

carmen.concilio@unito.it
Concilio insegna letteratura inglese all’Università di Torino