Dall’archivio. I libri di Edmund White

L’Indice dei libri del mese – A.24 (2007) n.10, ottobre  

Le mode del tempo
di Federico Novaro
Edmund White, MY LIVES
ed. orig. 2005, trad. dall’inglese di Giorgio Testa, pp. 350, €17, Playground, Roma 2007

My Lives è divertente, noioso, importante. White torna ai propri materiali autobiografici, come nella tetralogia di Un giovane americano (Einaudi, 1990), E la bella stanza è vuota (Einaudi, 1992), La sinfonia dell’addio (Baldini & Castoldi, 1998), e L’uomo sposato (Baldini&Castoldi, 2001), e come in tutti i suoi altri libri, compresi Stati del desiderio (Zoe, 1996) o II flâneur (Guanda, 2005), che dichiarano un intento più saggistico. In My Lives, però, ogni connotazione romanzesca è accantonata, in favore di una scansione per insiemi, in questo vicino a Stati del desiderio, che è diviso per città. 

In un’intervista a Francesco Gnerre (“Pride” n. 62, agosto 2004, ora reperibile su www.culturagay.it), White riferendosi al futuro My Lives, dice: “Sto scrivendo le mie memorie e molti mi dicono: ‘Ma le hai già scritte!’. In verità credo che nei miei romanzi si mescolino sempre autobiografia e fiction. Queste memorie sono un’altra cosa”. 

Sottostà all’intera opera di White l’idea che la sua vita, la sua vita di omosessuale americano, sia rappresentativa di qualcosa che non appartiene a sé soltanto, ma anche ad altri. L’affresco che è venuto via via componendo tende a questo, a dare voce e a illuminare vite che fino ad allora erano sconosciute, a creare un tessuto di riconoscibilità e rispecchiamento, attraverso il gesto apparentemente svagato del parlare di sé, secondo un intento ch’è, sempre, invece, radicalmente politico e sociale. 

Il narcisismo (ancora nella sua accettazione pre-freudiana), attribuito ai maschi omosessuali in tutta la cultura dominante del secolo passato, li ha sempre connotati negativamente. Il ripiegamento su sé, opposto allo sguardo limpido che fiero oltrepassa la linea dell’orizzonte, era segno di mollezza morale, di vizio. Lì si è annidato White per combattere il pregiudizio e l’invisibilità. Facendo di sé materia di romanzo, è riuscito a dire “io” e a fare intendere “noi”, accomunando a sé il lettore che vi si riconoscesse, mantenendo, attraverso il romanzesco, quella distanza da sé che rende il rispecchiamento possibile. L’abilità e l’arte della scrittura hanno allargato questo rispecchiamento anche a chi non trovasse nelle storie raccontate alcuna ragione d’appartenenza. A chi l’accusasse di parlare di sé i lettori di White potevano rispondere: – no, è anche di me che parla. 

Ora in My Lives cambiano il programma, e gli esiti. L’intenzione, manifesta, di redigere un memoire indirizza recisamente sull’autore, sulla sua vita, e sul suo statuto pubblico. L’intenzione dichiarata è il disvelamento. La scansione per temi (I miei analisti, Mio padre, Mia madre, Le mie marchette ecc.) annuncia una volontà di far ordine, entro un materiale che pre-esiste. Cronologicamente ci sono due assi, uno generale attraversa l’intero libro, l’altro, tortuoso e frammentato, ricomincia ad ogni capitolo, per ogni tema ritornando all’inizio. Questo comporta un andirivieni alla lunga un po’ estenuante e noioso, ma funzionale a consolidare l’intenzione archivistica. 

In My Lives White alterna spesso alla prima singolare la prima persona plurale, con morbidezza, scivolando. È come se, dopo aver costantemente illuminato la propria singolarità per dimostrare di non essere tale, ora White si sciogliesse in una pluralità vasta, un “noi” che è culturale, generazionale, di genere e sociale, di radicazione nazionale e, soprattutto, di mode del tempo. Questo è il nodo importante e la novità del libro. Qui l’intento autobiografico non rivela un io che descrivendosi si fa centro della propria narrazione componendone i tratti di originalità, ma al contrario lo scioglie nella temperie. Non c’è, come il programma autobiografico autorizza ad attendersi, la ricerca e la ricomposizione del “vero” White, bensì la silente dimostrazione che non si sia se non secondo le mode del tempo, e che lì, nella capacità di abbandonarsi con fiducia – come nei rapporti sado/masochisti che descrive in Il mio master – stia la calma realtà dell’esistenza, che sia attraverso la capacità alla forza della Storia, in un rapporto sempre controllato e mai sopraffattore, la piana e serena evidenza delle nostre vite. Il fantasma che White in My Lives debella è quello dell’originalità come pedaggio e giustificazione per l’esposizione di sé, e il luogo che costruisce è l’antipodo del dandy di Wilde. 

Inoltre My Lives è sempre divertente, l’ironia delicata di White qui raggiunge la sua formalizzazione più raffinata; lo sberleffo, soprattutto nei propri confronti, è commosso, lieve. Il primo capitolo farà ridere chiunque abbia avuto a che fare con una qualche forma di terapia psico-dinamica. 

Chi sia lettore affezionato di White troverà sciolti nomi e figure di altri libri, radici di episodi raccontati e attribuiti ai propri personaggi, e, nel capitolo su Genet, – di cui White è stato biografo con Ladro di stile (Il Saggiatore, 1998) – una panoramica sul mondo intellettuale francese a cavallo fra gli anni ottanta e novanta, malinconica e un po’ burlesca. Il libro è ovviamente anche serbatoio di pettegolezzi, manna per chi ami il genere. 

Una costante attraversa il testo: l’importanza attribuita all’amicizia (si veda l’ultimo capitolo, I miei amici, apparentemente il più scanzonato), sentimento che le temperie non modificano, più che all’amore, anche lui così preda delle mode culturali. 

 

L’Indice dei libri del mese – A.25 (2008) n.12, dicembre  

Un testo da finire
di Federico Novaro
Edmund White, HOTEL DE DREAM
ed. orig. 2007, trad. dall’inglese di Giorgio Testa, pp. 233, € 15, Playground, Roma 2008

Nel 2005 usciva My Lives, apparente chiosa e summa della pratica autobiografica di Edmund White (Play-ground, 2007; cfr. “L’Indice”, 2007, n. 10); Hotel de Dream segna ora uno scarto importante rispetto ai libri precedenti, anche rispetto a Ladro di stile, la biografia di Genet uscita nel 1993 (in Italia nel 1998, dal Saggiatore). Hotel de Dream è un testo di invenzione. Ma non lo sono i personaggi, né molti dei fatti narrati. 

Al declinare del diciannovesimo secolo Stephen Crane, ventottenne, è nel Sassex, stremato dalla tubercolosi che nel giugno del 1900 lo porterà alla morte in Baviera, raggiunta nella speranza di una cura. Quattro anni prima pubblica The Red Badge of Courage, ora considerato testo cardine della letteratura americana, allora accolto in patria in modo controverso. 

Quattordicesimo figlio di un pastore metodista, fa vita di bohémien a New York, descrive ciò che il perbenismo e la morale vigente vorrebbero tacesse, nel 1893 pubblicava Maggie: a girl of the street, storia di una prostituta; giornalista di guerra, vive dal 1897 con Cora Taylor, già proprietaria a Jacksonville di un bordello, l’Hotel de Dream, che gli sta accanto sino alla morte; trasferitosi insieme in Inghilterra, dove lo scandalo della loro unione sembra toccarli meno, Crane è amico di Joseph Conrad, di H. G. Wells, di Henry James. 

In Hotel de Dream White lo muta in personaggio, io narrante e origine del suo testo. 

Nella postfazione White dice di aver trovato in una nota di James Gibbon Huneker, critico musicale che conobbe Crane, un accenno a un testo iniziato, interrotto e distrutto (“Forse la miglior prosa che Crane abbia scritto”), intitolato Fiori d’asfalto, che narrava la storia di un giovane prostituto. White aggiunge che del testo non è rimasta traccia, e che lo stesso Huneker, a un’analisi attenta, si rivela testimone inattendibile. 

Da qui nasce Hotel de Dream: “Questo romanzo è una mia fantasia basata su tematiche reali offerte dalla storia (…) ho cercato di immaginare come sarebbe potuto essere Fiori d’asfalto, per quanto non ne sia rimasta una sola parola”. Ma White non stila soltanto un testo apocrifo, ne mette in scena il momento della stesura, l’esperienza che ne potrebbe essere stata origine, e li intreccia. 

Il Crane di White, nell’approssimarsi della morte, torna al ricordo dell’incontro con un giovane prostituto, malato, bellissimo, che gli regala uno sguardo su un mondo a lui sconosciuto, abitato da travestiti, creatura dalla sessualità incerta e misteriosa, uomini rispettati che furtivamente consumano rapporti sessuali con giovanissimi strilloni, un mondo parallelo e pulsante nel quale Crane si immerge come cronista affascinato e stupefatto. 

Il tentativo di farne un racconto fu messo in discussione dai commenti di un amico, preoccupato per lo scandalo che ne sarebbe sortito (ancora non si è speso l’eco del processo a Wilde); il rimpianto e l’urgenza dati dalla malattia lo portano a dettare alla compagna Cora una nuova versione, dove l’esperienza viene fratta e ricomposta in un racconto che è quasi d’avventura, e dove l’amore fra un adulto e un adolescente (il modello è Adriano e Antinoo) trova una nuova variazione, calato in un contesto urbano e selvaggio, ancora lontano dalla coscienza tassonomica e definitoria che la cultura omosessuale costruirà nel secolo successivo. 

La dettatura, sommessa, discontinua, febbrile, inizia nel Sassex, tra ineffabili visite di James e amorevoli cure della compagna, e prosegue, via via più estenuata, durante il viaggio verso la Baviera, dove Cora spera che una cura potrà salvarlo e dove invece Crane termina la sua esistenza. Il racconto non è finito, ma Crane lo affida a Cora confidando nell’arte di Henry James, che saprà terminarlo. La conclusione di Hotel de Dream è un colpo di genio assoluto di White, una lettera di James a Cora che gli ha spedito il testo, che lascia ammirati e sospesi. 

Oltre a essere un libro molto godibile, romantico, appassionante e divertente (che varrebbe la lettura anche solo per la presenza di Henry James, che sembra svicolato fuori da The Master di Colm Tóibín, ma qui al servizio di una scrittura più divertita e crudele), Hotel de Dream appare come una nuova risposta all’esigenza, esiziale in White, di costruire una memoria, una storia, un retroterra all’esperienza e alla comunità omosessuale. 

Apparentemente lontano come soggetto dal libro, in realtà White ritesse una fitta rete di rimandi, rispecchiamenti e allusioni alla propria autobiografia che è sempre stata, nel suo lavoro, collettiva. 

 

L’Indice dei libri del mese – A.27 (2010) n.02, febbraio  

Sempre la stessa storia
di Federico Novaro
Edmund White, LA DOPPIA VITA DI RIMBAUD
ed. orig. 2008, trad. dall’inglese di Giorgio Testa, pp. 186, € 14, Minimum Fax, Roma 2009

Tradotto da Giorgio Testa, già traduttore di White per My Lives, Hotel de Dream e Caos (Playground, rispettivamente 2007, 2008 e 2009), La doppia vita di Rimbaud esce da Minimum Fax. Il testo (Rimbaud: The Double Life of a Rebel, 2008) nasce per una serie della Atlas&C, che ospita biografie di scrittori. White non è nuovo al genere, sua è una biografia di Jean Genet (Genet: A Biography, 1993; Ladro di Stile, Il Saggiatore, 1998) e una di Proust, del 1999 (Marcel Proust, inedita in Italia). Questa su Rimbaud patisce forse l’essere lavoro su commissione: poco innovativa, fa onesta opera di divulgazione, svolta con verve, ma lontana dall’intelligenza che spesso brilla nei testi di White. E storia già narrata tante volte, e nel tratteggiare la figura di Rimbaud come l’eterno adolescente ribelle, del suo peregrinare come un’inquietudine on-the-road ante litteram, e del tempestoso rapporto con Verlaine come un tenero e isterico romanzo d’appendice, White non si discosta molto dal film di Agnieszka Holland (Total Eclipse, Uk-Usa 1995), aggiungendo, certo, scrupolo nell’esposizione e ricerca dei dati, e la citazione di qualche poesia (qui nella versione italiana di Dario Bellezza: Opere in versi e in prosa, Garzanti, 1989) e un inquadramento nei movimenti letterari coevi. L’interesse è piuttosto nella chiave che White usa per scrivere questa biografia: “Quando avevo sedici anni”, questo l’incipit del libro; coerentemente con molti dei suoi lavori, White comincia una biografia accordandola in io, riutilizzando materiali già presenti in altri suoi testi (“prima che scoprissi Rimbaud mia madre mi aveva regalato una biografia di Nijinskij”: biografia incompiuta che percorre Caos), ribadendo l’idea che non vi è scrittura se non politica, e che non vi è politica se non a partire dalla prima persona singolare. 

 

L’Indice dei libri del mese – A.27 (2010) n.11, novembre  

Bonus di simpatia 
di Federico Novaro
Edmund White, RAGAZZO DI CITTÀ 
ed orig. 2009, trad. dall’inglese di Alessandro Bocchi, pp. 301, € 18, Playground, Roma 2010

Edmund White torna a forme esplicitamente autobiografiche con questo Ragazzo di città; è il suo quarto libro pubblicato da Playground, che ha assunto l’ormai raro compito di esserne fedele editore italiano (dopo My Lives, nel 2007, cfr. “L’Indice”, 2007, n. 10; Hotel de Dream, nel 2008, cfr. “L’Indice”, nel 2008, n. 12; Caos, nel 2009. Due testi di non-fiction sono usciti da altri editori, La doppia vita di Rimbaud da minimum fax nel 2009, cfr. “L’indice”, 2010, n. 2, e Ritratto di Marcel Proust da Lindau nel 2010. Tutti tradotti da Giorgio Testa, eccetto la piccola biografia di Marcel Proust, tradotto da Diana Mengo). Peccato non avere mantenuto nell’edizione italiana il sottotitolo che compare in quella originale: My Life in New York During the 1960s and ‘70s, che, oltre a legare il testo al precedente My Lives (e insieme, con il passaggio al singolare, distaccarsene), circoscrive e indirizza ambito e intenzione. 

La delimitazione temporale sembra provocare nel ritmo, sovente lungo, della narrazione di White unaccelerazione, sin un affastellamento. Diviso in diciotto capitoli (peccato, manca l’indice, e manca tantissimo, ma avrebbe allontanato dallintenzione che è, anche, romanzesca, un indice dei nomi) che si accentrano con apparente indolenza su un momento, o più spesso su una persona, e che costruiscono una sorta di sdrucciolevole sistema di pianeti, di stelle, galassie dove White ha agio di descriversi sempre come laterale, come incidentale, Ragazzo di città è un testo deviato, e divertente. Anche forse ha giocato il fatto, fondatore di White, di ripresentare materiali che già sono comparsi altrove, le stesse persone, gli stessi fatti, magari con altri nomi, con altri aspetti, verso i quali, a chi aveva letto altri libri di White – e questo infatti non è il migliore per cominciare – si crea unironica solidarietà, una sorta di bonus di simpatia, che ben dispone verso quello che è in realtà un complesso tour de force, non solo lungo due decenni pirotecnici come pochi altri (compressi fra i cinque e i novanta, sembrano contenere lo spazio di vite intere), ma lungo il potere definitorio della forma autobiografica. Il passaggio dalla prima persona singolare alla prima plurale è orchestrato con rara maestria, si fa generazionale, quando descrive la messe di artisti che popolano il panorama intellettuale di allora (e pagine divertenti, commosse, acute, pure perfide, sono dedicate a Susan Sontag, che chiude il libro, a suggello, insieme allavvento dellAids, Robert Mapplethorpe, Robert Wilson, ma anche Truman Capote, Vladimir Nabokov, Roland Barthes e, sembra, infiniti altri e altre), di gruppo, quando il ragazzo di provincia arrivato in città diventa parte di una comunità, nel mentre stesso della nascita di quella comunità (noi gay, la partecipazione ai fatti dello Stonewall), nazionale, nel pendolarismo lento fra Europa e Stati Uniti. Dalla sua piana lateralità White pone costantemente a sé e a chi legge, senza mai dedicarvi una riga, il problema della distanza fra chi racconta e chi ascolta, e della loro, mutua, definizione.