Bloomsday: 16 giugno 1904 di Elisabetta d’Erme
dal numero dell’“Indice dei Libri del Mese” di giugno 2004
A Trieste, nel 1982, tra i partecipanti alle Giornate celebrative in occasione del centenario della nascita di James Joyce, c’era anche Alberto Moravia che suggeriva di leggere l’Ulisse “come un poema, con pazienza” poiché “è un grosso equivoco considerarlo uno sconfinato romanzo”. Ora Trieste torna a festeggiare un giubileo collegato allo scrittore irlandese: l’arrivo in città del giovanissimo James Joyce e della sua compagna Nora Barnacle il 20 ottobre del 1904 e – per traslato – il centenario del Bloomsday, il 16 giugno 1904, ovvero le ventiquattr’ore all’interno delle quali si svolge il grande poema dell’Ulisse.
Lasciatosi alle spalle una Dublino gretta e provinciale, Joyce trovò a Trieste, dove visse per circa undici anni, tra il 1904 e il 1920 un’inesauribile fonte di stimoli che lo avrebbero portato a creare le figure – molto mediterranee – di Leopold e Molly Bloom. Attorno a quell’esperienza ruota il libro di John McCourt James Joyce. Gli anni di Bloom (Mondadori). Il centenario del Bloomsday è infatti anche un evento editoriale, diverse case editrici internazionali hanno in programma la riedizione delle opere di Joyce, grande attesa è riservata a una nuova edizione commentata e annotata dell’Ulisse della Suhrkamp di Francoforte in uscita per fine maggio. I festeggiamenti del Bloomsday (ideati negli anni cinquanta da Flann O’Brien) non si svolgeranno solo a Dublino o a Trieste, ma ovunque nel mondo esistono appassionati lettori di Joyce.
A Trieste, le celebrazioni del doppio centenario si svolgeranno in diverse tappe, a partire dal 16 giugno con l’apertura del Museo joyciano presso la Biblioteca civica, in piazza Hortis 4, accanto alle stanze dedicate all’amico e alunno Italo Svevo; e una serie di letture nei caffè storici cittadini, come il San Marco, il Tommaseo, la Stella Polare, un tempo frequentati dallo scrittore. Seguirà poi una settimana di convegni e seminari sotto l’egida della Trieste Joyce Summer School (27 giugno – 3 luglio). Evento di particolare interesse, vista la rosa dei partecipanti che vanno dallo studioso Derek Attridge, dell’Università di York, tra i più influenti commentatori dell’opera joyciana, a Roy F. Foster, autore di un’importante storia dell’Irlanda moderna e della grande biografia di W. B. Yeats, poeta anglo-irlandese e premio Nobel nel 1923, Jacques Aubert, traduttore francese di Joyce, e quello cinese, Jin Di, Piero Boitani dall’Università di Roma e Rosa Maria Bosinelli dell’Università di Bologna, Fritz Senn, direttore della Fondazione Joyce di Zurigo, e tanti altri. La scuola è diretta da Renzo S. Crivelli dell’Università di Trieste e da John McCourt e rivolge la sua attenzione anche alla narrativa irlandese contemporanea, quest’anno privilegiando la scrittura femminile. Tra gli ospiti d’onore la scrittrice Jennifer Johnston (edita da Fazi con Quanto manca a Babilonia? e Ombre sulla nostra pelle) e il collettivo The Women Writers Web di Dublino guidato da Catherine Dunne, della quale Guanda ha pubblicato recentemente Una vita diversa. L’estate sarà densa di eventi teatrali nelle strade e nelle piazze di quella che per James e Nora era semplicemente “la nostra bella Trieste”, mentre a settembre nella sala della Biblioteca Quarantotto Gambini verrà inaugurata una mostra fotografica di Megan O’Beirne sui luoghi joyciani a Parigi e Zurigo. Infine, il 20 ottobre, un evento teatrale ricreerà l’arrivo di James e Nora alla Stazione centrale di Trieste. Per la stessa giornata è prevista la presentazione del libro di Renzo S. Crivelli Una rosa per Joyce, professore d’inglese (Mgs Press), nonché la messa in scena al teatro Rossetti del testo teatrale dello stesso autore dal titolo Nora: l’Altro Monologo.
Il Bloomsday a Genova, Milano, Trieste e Modica di Elisabetta d’Erme
dal numero dell’“Indice dei Libri del Mese” di maggio 2014
Per James Joyce il 1914 fu un anno decisivo, spartiacque tra la condizione di oscuro esule e quella di icona del modernismo. Per lo scrittore irlandese il giro di boa iniziò a fine dicembre 1913, quando Ezra Pound, su sollecitazione di W. B. Yeats, gli chiese di visionare qualche suo scritto. Poi, il 29 gennaio 1914, dopo nove anni di falliti tentativi, l’editore Grant Richards accettò di pubblicare Dubliners che Joyce gli aveva già proposto nel 1905. Forse fu un bene, perché intanto vi aveva aggiunto un ultimo, splendido racconto, I morti. Il volume uscì infine il 15 giugno 1914. Nel frattempo Joyce aveva risposto a Pound inviandogli i racconti e il primo capitolo di A portrait of the artist as a young man, romanzo che Pound pubblicò a puntate sulla rivista “The Egoist” già a partire da febbraio 1914.
Il fortunato incontro tra Pound e Joyce (che contribuì a rivoluzionare la storia della letteratura) e la pubblicazione di Dubliners non sono però le uniche ricorrenze joyciane celebrate quest’anno: infatti le date che chiudono l’Ulisse ci ricordano che Joyce iniziò il romanzo nel 1914 a Trieste e che, via Zurigo, l’avrebbe terminato solo nel 1921 a Parigi.
Tutti buoni motivi per rendere speciali i festeggiamenti interplanetari per il Bloomsday (il 16 giugno 1904), giorno in cui si svolge l’epopea di Leopold Bloom (Poldy per gli intimi), piazzista pubblicitario, ebreo convertito, che percorre le strade di un’ostile Dublino mentre la moglie lo tradisce con un agente teatrale. Da Genova a Milano, da Trieste a Modica si terranno reading, performance, concerti. Per avere un’idea del coinvolgimento mondiale è sufficiente visitare il sito del James Joyce Centre Dublin che coordina l’evento. Il 2014 coincide anche con la scadenza biennale dell’International James Joyce Symposium, la cui organizzazione tocca quest’anno alla Utrecht University, che dal 15 al 20 giugno ne ospiterà la ventiquattresima edizione.
Appuntamento tra i più amati dalla comunità dei joyciani resta però la Trieste Joyce School, che quest’anno arriva alla sua diciottesima edizione (29 giugno-5 luglio). A seguire The Dublin Joyce Summer School (6-13 luglio) e infine il tour de force per pochi eletti, ovvero il Workshop della Zürich Joyce Foundation (3-9 agosto).
Le celebrazioni sono in realtà già iniziate a febbraio con la Graduate Conference che la James Joyce Italian Foundation organizza per il compleanno di Joyce (2 febbraio 1882). Il tema della settima edizione della conferenza, tenutasi all’Università Roma Tre, al dipartimento di lingue, letterature e culture straniere, il 6 e 7 febbraio, era “James Joyce: The Recirculation of Realism”.
Se la reazione più spontanea all’associazione tra l’opera di Joyce e il realismo è di scettica incredulità, ogni dubbio è stato vanificato nel corso dei lavori della conferenza; infatti, come ha sottolineato Franca Ruggieri nel discorso inaugurale, “per Joyce, in Gente di Dublino, Dedalus, Ulisse e Finnegan’s Wake, la scelta di uno stile scrupolosamente povero nella descrizione realistica della quotidianità irlandese degli inizi del XX secolo è sempre allegoria della realtà”.
Le premesse per leggere in quest’ottica il metamorfico testo di Joyce erano state fornite dall’ultimo affascinante saggio di Fredric Jameson, The antinomies of realism (Verso, 2013), in cui il teorico del post-modernismo analizza l’ascesa e la caduta del realismo, usando sia le categorie della teoria neuro-socio-comportamentale dell’affect-emotion che quelle linguistiche dell’erlebte Rede. Nelle pagine dedicate al discorso indiretto libero Jameson riserva ampio spazio all’Ulisse che, portando l’erlebte Rede alle sue estreme conseguenze, contribuì a innescare la crisi del realismo ottocentesco.
Nella letteratura, Jameson vede una profonda differenza tra un approccio retorico alle emozioni e le infinite possibilità linguistiche offerte dalla descrizione delle percezioni del bourgeois body riconducibili all’idea di affect. Nel romanzo ottocentesco uno dei medium dell’affect appare essere ad esempio il senso dell’olfatto, che introduce nella narrazione un drammatico elemento di realismo, associato a un’inusitata celebrazione del corpo.
Ann Fogarty (University College Dublin), nell’intervento che ha aperto i lavori del convegno di Roma, ha applicato le categorie degli affect-emotion e ai racconti di Gente di Dublino. Rifacendosi anche a The transmission of affect di Teresa Breman, che utilizza il termine per indicare qualcosa che elude il linguaggio, che “resiste alla rappresentazione”, Fogarty ha visto nelle elisioni, nei puntini di sospensione, negli spazi bianchi di cui Joyce dissemina i suoi racconti, segnali di un diverso modo di percepire il reale, come pure negli odori che permeano i suoi testi: cenere, frattaglie, gramigne oppure, come scrive in Giacomo Joyce, “puzzo stantio di ascelle”.
Sul tema del corpo ha insistito Victoria Lévêque (Sorbonne Nouvelle, Paris III) nel suo intervento The body on the page: Joyce, Woolf and the frustration of the real, centrato sulla rappresentazione “fratturata”, incompleta, del corpo, ad esempio nell’episodio Nausicaa che per Lévêque indica i limiti del realismo che Joyce esprime in una parodia, una maschera, e che Virginia Woolf traduce invece nella non-rappresentabilità del corpo. Uno sguardo fratturato che in Telemaco rimanda alle immagini di Calibano e dello “specchio incrinato di una serva”, elaborazioni di concetti già espressi da Oscar Wilde in The Decay of Lying e nella prefazione al Ritratto di Dorian Gray dove leggiamo che “l’avversione del XIX secolo per il realismo è la rabbia di Calibano nel vedere il proprio volto riflesso nello specchio”.
E se, come ha ricordato Andrea Selleri (University of Warwick), nello “specchio incrinato della serva” Dedalus vede “un simbolo dell’arte irlandese”, l’arte non può essere altro che lo specchio della realtà, e nel caso dell’Irlanda non può riflettere che una realtà distorta e deformata dalla sua condizione di servaggio sotto la dominazione britannica.
È però interessante notare che James Joyce non concepì il suo Ulisse come una rottura, una fuga “dalla prigione del realismo” (per citare ancora Wilde): infatti in una conversazione con Arthur Power sostenne che con l’Ulisse aveva aperto una nuova frontiera per la letteratura: quella del “nuovo realismo”. Joyce dichiarò all’amico che in particolare nell’episodio di Circe si era “avvicinato alla realtà più che in ogni altra parte del romanzo”, aggiungendo che “il nostro obiettivo è la sensazione, ampliata fino al livello dell’allucinazione”.
Il “nuovo realismo” proposto da Joyce è dunque una sorta di esplosione dell’affect, per arrivare infine a raggiungere un approccio al reale a livelli mai sperimentati prima in letteratura.
Le innovazioni linguistiche introdotte da Joyce nell’Ulisse, quali le voci e gli stili narrativi multipli, il flusso di coscienza e l’uso di materiali appartenenti sia alla cultura popolare e di massa (canzoni, giornali, pubblicità) che alla cultura high-brow (come nel caso dei riferimenti ai maestri della patristica o a Shakespeare e Dante), fanno tutti parte del suo tentativo di penetrare la realtà, di catturarne le sensazioni, anche quando queste si trasformano in una massa di percezioni allucinate.
“Sono qui per leggere le segnature di tutte le cose”, dichiara Stephen Dedalus in apertura di Proteo, mentre sulla spiaggia di Sandymount sperimenta (come ha sostenuto Sameera Siddiqe) una percezione sinestetica della realtà che riesce a coinvolgere molti dei suoi sensi: vista, udito, olfatto. Ancora una volta la visione della realtà è quella di un artista che “legge” il senso delle cose e nel suo pensiero la loro essenza più profonda si trasforma in parole, “segnature” del reale.
Il realismo in Joyce è legato alla sua capacità (come suggerito da Francesca Caraceni dell’Università della Tuscia) di “attivare un terzo senso”, di tenere il lettore sempre in allerta, perché il suo testo funziona solo se trova la completa cooperazione del lettore.
A questo punto l’ospite d’onore del convegno, Fritz Senn, direttore della fondazione James Joyce di Zurigo, ha lanciato la provocatoria domanda se Joyce sia stato o meno un grande scrittore. E il decano degli studi joyciani ha risposto che Joyce fu certamente un buon artigiano, capace di creare un’illusoria immagine della realtà, prodotta e costruita attraverso gli artifici del suo linguaggio.
L’importanza di strumenti che suggeriscono immagini tridimensionali, quali i primi “stereografi” presenti in Stephen Hero o il “mutoscopio” che è nei pensieri di Bloom in Nausicaa, che enfatizzano la “stereoscopicità” della realtà proposta da Joyce, è stata oggetto dell’intervento Dubliner di color che sanno di Jolanta Wawrzycka (Radford University): proprio come accadeva agli utenti di quei “giocattoli ottici” tardo vittoriani, comprendiamo che anche i lettori di Joyce si ritrovano infine trasformati in voyeuristici spettatori della realtà.
Il convegno, organizzato da Enrico Terrinoni, Franca Ruggieri e John McCourt, si è chiuso con la relazione di Rosa Maria Bosinelli, che ha ironicamente posto la questione su quanto “il reale” sia “reale” in Joyce. Lo scrittore irlandese pretendeva che Dublino potesse essere ricostruita sulla base delle sue descrizioni nell’Ulisse, ma Bosinelli ha espresso validi dubbi sulla possibilità che quella descritta nel romanzo sia proprio Dublino e non invece un luogo della mente: “la città di Joyce”. Resta il fatto che Poldy e Molly sono talmente reali che è impossibile non cercarne le tracce per le vie di Dublino, così come è difficile definire il confine tra realtà e finzione per luoghi come la farmacia di Sweny dove Leopold acquista la sua saponetta al limone o del pub di Davy Byrne dove gusta il suo sandwich al gorgonzola. Tutti luoghi di pellegrinaggio per il prossimo Bloomsday.