di Armando Genazzani
Alle elementari insegnano i rudimenti di come fare ricerca: prima si osserva un fenomeno, poi si formula un’ipotesi e quindi si sviluppano degli esperimenti atti a valutare se questa ipotesi è valida e possa spiegare l’osservazione iniziale. Gli esperimenti scientifici dovrebbero essere disegnati così, per confutare l’ipotesi, per dimostrare, cioè, che l’ipotesi iniziale è sbagliata. Se alla fine nessuno degli esperimenti condotti è stato in grado di confutare l’ipotesi iniziale, questa ipotesi è plausibile e la si può comunicare alla comunità scientifica, e altri scienziati cercheranno di raffinarla ulteriormente, spingendo le frontiere del sapere sempre più in là.
La ricerca scientifica è un lavoro che richiede passione, anche perché il fallimento dell’ipotesi è sempre dietro l’angolo ed è associato alla frustrazione di dover iniziare da capo. È anche un lavoro che richiede una squadra, soprattutto in un’era di avanzamento rapido delle conoscenze come quella attuale, ed è altamente competitivo, con gruppi di ricerca nel mondo che lavorano sulle stesse idee (o su idee contrapposte) con l’ansia e la pressione di riuscire a essere i primi a fare una grande scoperta.
Del mondo della ricerca, delle dinamiche accademiche, e delle sue storture, è un grande narratore Carl Djerassi. Oltre a essere stato un grande chimico, tra gli inventori della pillola anticoncezionale, lo scienziato austriaco è stato anche un eccellente romanziere. Nel Dilemma di Cantor, Djerassi ad esempio affronta il tema della competizione e della necessità di emergere in ambito accademico. Se è infatti vero che la ricerca dovrebbe essere costruita per confutare le ipotesi, e quindi qualunque esperimento, anche quello che confuta l’ipotesi iniziale e porta al fallimento di un progetto di ricerca, è rilevante, è innegabile che vi sia una forte competizione per i finanziamenti e per pubblicare sulle migliori riviste scientifiche. Può quindi succedere, come descritto nel libro, che un laboratorio si spinga deliberatamente oltre il lecito per avvalorare la propria ipotesi, arrivando a falsificare i dati. In Operazione Bourbaki, invece, Djerassi descrive le difficoltà accademiche e le vicissitudini dei ricercatori, schiacciati tra l’individualismo della ricerca, la necessità di emergere, e la politica degli istituti, come anche recentemente affermato dal Premio Nobel per la Medicina 2023 Katalin Karikó. Pur trattandosi di due romanzi, sono due libri che inquadrano con grande lucidità e onestà il paradosso della ricerca scientifica.
Di storture in ambito scientifico parla anche un recente e bellissimo saggio storico di Silvia Bencivelli. Riuscire a spingere le frontiere del sapere e ad affermarsi nel proprio campo scientifico può aumentare l’autostima dei ricercatori sino a farli sbagliare clamorosamente. O, per dirla in altre parole, non perché si è avuto ragione una volta, si sarà infallibili per sempre. In Tre colpi di genio e una pessima idea Bencivelli descrive la vita di Charles-Édouard Brown-Séquard, ricercatore nato alle Mauritius nel 1817 che ha passato la sua carriera accademica tra Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Per quanto la sua capacità di disegnare esperimenti ben controllati sia stata messa più volte in dubbio, Brown-Séquard ha dato un contributo all’avanzamento scientifico in vari campi. Ad esempio, è stato tra i primi a ipotizzare l’esistenza degli ormoni, cioè sostanze chimiche circolanti nel sangue in grado di comunicare a vari organi, e a descrivere una particolare sindrome neurologica dovuta a un danno del midollo spinale che porta a emiplegia. La sua vita sembra un film, tra successi, insuccessi, viaggi da una parte all’altra dell’Atlantico, cambiamenti di direzione professionali, una carriera altalenante e tante vicissitudini personali. Silvia Bencivelli, con uno stile molto originale, è in grado di coinvolgere chi legge in tutto questo. Con un certo colpo a effetto, il primo capitolo del libro (Un finale col botto) descrive la fine scientifica di Brown-Séquard. La sua iniziale ipotesi sulla presenza degli ormoni lo porta a immaginare, in tarda età, che iniettare estratti di testicoli animali possa ridare vigore e giovinezza agli uomini. Lo prova su sé stesso, ed è sicuro che questo lo porti a salire le scale con il passo di un tempo, e addirittura che il fiotto della sua urina riprenda quel vigore che è proprio della gioventù. Questa ipotesi non dimostrata viene venduta da Brown-Séquard come realtà nelle conferenze scientifiche davanti ai migliori ricercatori francesi. I suoi colleghi per la maggior parte lo deridono, per quanto questi estratti diventino comunque un successo commerciale, con molti, anche personaggi famosi, che ne fanno uso e ne decantano le proprietà virili. Perché non funziona e l’effetto di questi estratti è puramente placebo? Perché gli ormoni sessuali maschili sono accumulati nei testicoli ma sono rilasciati immediatamente quando sono prodotti. A voler guardare il bicchiere mezzo pieno, si potrebbe dire che l’idea di Brown-Séquard ha fatto nascere la moderna ormonoterapia (incluso il doping a base di testosterone), ma a essere realisti bisogna ammettere che era un’idea bislacca senza basi scientifiche e senza una metodologia scientifica a supporto; però il fatto che alcune delle sue intuizioni precedenti fossero corrette non può non farci valutare negativamente l’approccio alla scienza di Brown-Séquard.
Talvolta, come in quel caso, i ricercatori diventano i peggiori nemici di sé stessi, presi dall’ambizione, dalla spasmodica ricerca del successo o accecati dall’ipotesi che stanno perseguendo, perdendo essi stessi di vista i principi della ricerca scientifica. A questo proposito, è un vero peccato che nessuno, almeno in tempi recenti, si sia preso la briga di scrivere un libro su Chester Southam, protagonista suo malgrado di uno dei casi che ha fatto scuola nella bioetica. Southam era un illustre oncologo americano, a metà del secolo scorso, che immaginava vi fosse una stretta relazione tra il sistema immunitario e l’insorgenza dei tumori (vero!). Per dimostrare questa sua ipotesi, decise di iniettare cellule tumorali nei pazienti della sua clinica a loro insaputa, immaginando che tali cellule non attecchissero (pessimo!). Fu denunciato perché tale esperimento aveva messo in grave pericolo i pazienti, il che non gli vietò poi di diventare presidente della più importante società scientifica per la ricerca sul cancro degli Stati Uniti. Sappiamo oggi che Southam aveva ragione, ma alla luce delle conoscenze di ottant’anni fa quell’esperimento non avrebbe mai dovuto essere eseguito.
Possiamo solo immaginare cosa abbia portato Brown-Séquard o Southam a fuoriuscire dai canoni della ricerca, ed è per questo che il libro di Jacques Benveniste La mia verità sulla memoria dell’acqua è quanto di più interessante si possa immaginare, non per i contenuti scientifici (anzi), ma per la prospettiva che apre. Anche Benveniste era un grande scienziato, scopritore di alcuni dei messaggeri chimici che partecipano alla comunicazione delle cellule del corpo. In particolare, durante il suo soggiorno negli Stati Uniti alla fine degli anni settanta Benveniste scoprì uno dei fattori principali che attivano le piastrine, cellule fondamentali per la coagulazione del sangue. Un grande ricercatore, che diventa famoso al di fuori della cerchia ristretta degli scienziati il giorno in cui pubblica sulla più importante rivista scientifica al mondo, “Nature”, che l’acqua mantiene memoria delle sostanze che vede. In breve, secondo questa teoria, mettendo una sostanza in acqua e poi diluendola oltre il limite per il quale nessuna molecola di quella sostanza rimane più nell’acqua, quella stessa soluzione è in ogni caso in grado di ritenere alcune delle proprietà iniziali della sostanza contenuta. Secondo Benveniste, le molecole d’acqua si organizzano infatti da un punto di vista molecolare per mantenerne la memoria. L’osservazione contraddice qualunque legge della fisica e della chimica conosciuta e diventa il mantra scientifico dell’omeopatia, che si fonda proprio sul concetto di diluizione infinitesimale. Peccato che negli ultimi cinquant’anni nessuno sia mai stato in grado di replicare l’esperimento e che, oltre ogni remoto dubbio, non rappresenti la realtà, indipendentemente dal fatto se vi sia stata una falsificazione degli esperimenti o che questi fossero solo stati condotti male. Leggere il libro di Benveniste, se si accetta la sua buona fede (non è detto, molti sospettano che vi fossero suoi conflitti di interesse con aziende di prodotti omeopatici) e si sta ben attenti a non dare credito alla parte scientifica e alle sue giustificazioni, porta a capire come un’idea possa diventare pervasiva oltre ogni ragione per il singolo ricercatore, portandolo a falsificare i dati o ad avere un bias nel condurre gli esperimenti, accettando come veri solo i dati a supporto dell’ipotesi ed escludendo quelli che invece la vanno a mettere in dubbio.
Per questa stessa ragione i trial clinici necessari allo sviluppo, all’approvazione e all’immissione sul mercato di nuovi farmaci vengono condotti “in doppio cieco”, per ridurre al minimo il rischio di bias causati sia dalle aspettative dei pazienti che dai pregiudizi degli sperimentatori. In fin dei conti, i ricercatori sono prima di tutto esseri umani, molto più inclini ad accettare con favore i dati sperimentali che supportano il loro successo (e la veridicità delle proprie ipotesi) rispetto ai dati che ne determinano il fallimento.
Genazzani insegna farmacologia all’Università di Torino
armando.genazzani@unito.it
I libri
Silvia Bencivelli, Tre colpi di genio e una pessima idea. Ascesa e caduta di uno scienziato squinternato, pp. 192, € 18, Bollati Boringhieri, Torino 2025
Jacques Benveniste, La mia verità sulla memoria dell’acqua, Macro, 2009
Carl Djerassi, Operazione Bourbaki, Di Renzo, 2005
Carl Djerassi, Il dilemma di Cantor, Di Renzo, 2003