Intervista di Camilla Valletti a David Quammen
David Quammen, il celebre viaggiatore, divulgatore scientifico e scrittore sarà questo mese in Italia per intervenire a Trieste Next – Festival della Ricerca Scientifica (26-28 settembre 2025).
La previsione della diffusione di una pandemia mondiale ha segnato il successo del suo Spillover (cfr. “L’Indice” 2020, n. 9). Ma qui ci piacerebbe precisare il suo lavoro di divulgatore e la sua particolare scelta di scrittura che rende i suoi libri davvero molto letterari. Ha ricordato, a più riprese, il suo debito con L’urlo e il furore di William Faulkner. Uno scrittore dalla frase lunga, complessa, con tutta quella molteplicità di punti di vista sembra quasi un modello opposto rispetto alla scrittura divulgativa… o no?
Per rispondere devo tornare alle origini del mio percorso di scrittore. Ero studente universitario, intorno al 1967, quando mio cognato (persona di cui mi fidavo) mi consigliò un libro: The Sound and the Fury di Faulkner. Non avevo mai letto nulla di suo. Dopo appena cinque pagine, nel pieno della confusione volutamente creata dalla tecnica dei narratori multipli e delle prospettive soggettive, ne rimasi conquistato per sempre. Cominciai a leggere altri romanzi di Faulkner, sempre di più. Alla fine li avevo letti tutti, e iniziai a rileggerli – fino a leggere molte volte quello che considero il più complesso e riuscito, Assalonne, Assalonne!.
Un anno o due dopo, ebbi la fortuna di incontrare un grande insegnante che era anche lui un grande romanziere del Sud: Robert Penn Warren. Poco dopo scrissi il mio primo libro – un romanzo, che non aveva nulla a che vedere con Faulkner, ispirato a una storia di amicizia sullo sfondo delle tensioni razziali nei quartieri difficili di Chicago – e fu proprio Warren ad aiutarmi a trovare un editore. Poi ottenni una borsa di studio per l’Università di Oxford, dove proseguii gli studi laureandomi con una tesi sui modelli strutturali nei romanzi maggiori di Faulkner, sotto la guida di un altro grande insegnante: Richard Ellmann, critico letterario e biografo. Dopo la laurea mi trasferii nel Montana per tentare la carriera di romanziere. Ma avevo già raccontato l’unica vera storia che possedevo, ero giovane, con poca esperienza… e, nel frattempo, la passione per il mondo naturale – che avevo fin da bambino – cresceva sempre più. Così mi dedicai alla saggistica, alle scienze naturali e via via sempre di più alle scienze della vita: biologia evolutiva ed ecologia.
Ho pubblicato altri tre romanzi (due dei quali erano spy story basate su casi storici), ma dal 1988 in poi ho scritto soltanto saggistica. Il mio primo libro di questo genere fu The Song of the Dodo, sul tema dell’evoluzione, dell’estinzione e del ruolo evolutivo delle isole – e, più in generale, dei territori che diventano “isola” man mano che i grandi paesaggi naturali si sono frammentati. Uscì nel 1996. Ci vollero otto anni per scriverlo, quasi tutti dedicati a ricerche sul campo: Tasmania, Madagascar, Nuova Guinea, Mauritius, Bali, Lombok, le Molucche, Krakatoa, Guam, e altre isole. Il libro è lungo (625 pagine) e strutturalmente complesso ma pensato in ogni dettaglio; dubito che avrei potuto scriverlo in quel modo se non avessi trascorso anni a studiare Faulkner.
Durante gli studi, non avevo mai approfondito la scienza. Tutto ciò che so l’ho imparato facendo il mio lavoro: leggendo articoli e libri scientifici, intervistando ricercatori, seguendo biologi sul campo e in laboratorio… e continuando a leggere ancora, moltissimo.
Nel 2007 ha scritto L’evoluzionista riluttante, libro indimenticabile sulla caratura umana di Charles Darwin. Perché ritiene che l’eredità darwiniana sia ancora così tanto discussa?
Come ho detto altrove, Darwin era un uomo cresciuto in un ambiente sociale conservatore, che si ritrovò a portare sulle spalle un’idea radicalissima. Ma, sebbene esitasse a pubblicarla per non turbare le coscienze del suo tempo, era anche un uomo profondamente onesto e coraggioso. Alla fine la pubblicò, dopo ventun anni di riflessione, raccogliendo nel frattempo la miglior documentazione possibile per sostenerla.
Il suo libro e la sua grande idea – L’origine delle specie, sull’evoluzione per selezione naturale – sconvolsero il pensiero comune e continuano a farlo per due motivi: 1) rendono superflua l’idea di un creatore divino onnipotente che abbia formato tutte le creature nella loro varietà; 2) suggeriscono fortemente la continuità tra l’essere umano e gli altri esseri viventi, dagli scimpanzé fino ai primi microrganismi, minando così l’idea che l’uomo sia un essere unico, separato e superiore, dotato di un’anima immortale. A molte persone questo non piace.
I suoi libri sono anche grandi racconti di avventura. Penso ad esempio a Il cuore selvaggio della natura (cfr. “L’Indice” 2025, n. 1). I luoghi di per sé hanno un tratto romanzesco: l’Amazzonia centrale, il bacino del Congo, le paludi dell’Okefenokee, la Cordigliera della Nuova Guinea… tanto che qualcuno l’ha paragonata a Michael Crichton. Cosa pensa di un simile accostamento?
Uno dei miei principi fondamentali come scrittore di saggistica è sempre stato: “Vai lì”. Se vuoi scrivere dell’Ebola che uccide i gorilla nella foresta congolese, vai lì. Se vuoi raccontare l’incredibile biodiversità del Madagascar, vai lì. Amo visitare luoghi remoti e camminare tra le foreste o le paludi, con biologi esperti o con chi quei territori li abita.
Michael Crichton? Ho letto solo uno dei suoi libri, uno dei primi: The Andromeda Strain. Fantascienza interessante. Da quel che so era un uomo molto intelligente, e molto alto! Non ho nulla contro di lui, ma mi dicono che il suo libro sull’Africa centrale non fosse granché. Il paleontologo Jack Horner è un vecchio amico, e pare che Crichton abbia modellato un suo personaggio proprio su di lui. Ma di Jurassic Park e simili non so davvero nulla.
Lei insiste molto su come i nomi della geografia possano essere fuorvianti, per esempio “Continente nero” per indicare l’Africa è una definizione estremamente riduttiva, giusto?
Molti in Europa e in America conoscono poco o nulla delle regioni più remote, selvagge, difficili del pianeta, come certi ecosistemi africani che ho esplorato. E lo stesso vale, anzi di più, per luoghi come la Nuova Guinea, il Borneo, il Madagascar. Ma con l’Africa c’è un’ulteriore distorsione: l’illusione di conoscerla. Alcuni visitano il Kenya, la Tanzania o il Botswana per ammirare i grandi animali carismatici e pensano di aver visto l’Africa: “Oh, amiamo l’Africa! Ci siamo stati quattro volte!”. Ma il Kenya non è l’Africa. È una sua parte, straordinaria, ma non rappresentativa. L’Africa è diecimila luoghi diversi, ciascuno con la propria storia. E non è “nera” – è luminosa, colorata, variegata nella sua ricchezza biologica, ecologica e culturale. Certo, vi sono aree difficili, segnate dalla povertà, dall’eredità coloniale, da conflitti politici, da sistemi sanitari carenti, dallo sfruttamento economico da parte di attori esterni, e – nei luoghi più remoti e selvaggi – dalla pura e travolgente forza della natura. Ma l’Africa è anche la nostra casa ancestrale. Questo è un fatto, e non dovremmo mai dimenticarlo.
Ha un grande riguardo nei confronti di esploratori contemporanei come Mike Fay, il matto, e Jane Goodall. Li ha incontrati, conosciuti personalmente. Che persone sono?
Mike Fay, con cui ho camminato per settimane nei luoghi più remoti e incontaminati delle foreste dell’Africa centrale (soprattutto in Congo), è il biologo-conservazionista più determinato, appassionato e tenace che abbia mai conosciuto. È uno scienziato ed esploratore intrepido, ma anche un uomo con molto senso dell’umorismo. Detto questo, non vorreste mai lavorare sotto di lui, né lui sotto di voi. È un outsider. Ho raccontato tutto questo nella serie di reportage Megatransect, pubblicati da “National Geographic” e poi raccolti in Il cuore selvaggio della natura (Adelphi, 2024).
Jane Goodall non è un’esploratrice nel senso stretto del termine, ma una straordinaria biologa da campo, che è poi diventata una leader mondiale nella tutela degli scimpanzé e della natura in generale. È una persona magnifica, coraggiosa, morale, persuasiva, gentile e piena di umanità. Ma è anche una donna vivace, con un grande senso dell’umorismo, ottima compagna intorno a un fuoco, pronta a sopportare i disagi della foresta e a condividere un buon whisky torbato. Per definire un luogo capace di rigenerarsi ha individuato quattro elementi: estensione, connessione, diversità e processi. Questo insieme è quella che lei chiama biodiversità?
Sì, quei quattro elementi, come scrivo nell’Introduzione a Il cuore selvaggio, costituiscono secondo me ciò che si può chiamare “il battito” dei luoghi selvaggi. Il battito non è solo la somma delle parti – mammiferi, uccelli, rettili, microbi, alberi, liane, fiumi – ma una proprietà emergente da esse. Per avere quel battito vitale, servono tutte le componenti biologiche, certo, ma anche le quattro dimensioni fondamentali: la scala (deve essere un’area estesa), la connettività (non può essere spezzata da strade, villaggi e città, come ho scritto in The Song of the Dodo), la diversità biologica (le parti devono essere molte e diverse), e i processi vitali (predazione, erbivoria, decomposizione, fotosintesi, parassitismo, competizione: tutti legami dinamici tra le parti). Tutto questo, insieme, è ciò che io intendo per biodiversità con un battito.
Lei si è posto sempre contro il catastrofismo degli ambientalisti. Come si colloca adesso? Quel po’ di speranza che l’ha sempre guidata, quell’ironia che ha reso le sue pagine avvincenti, è per lei oggi ancora possibile?
Per me la speranza non è uno stato d’animo, né una previsione: è un dovere. Senza speranza, smetteremmo di lottare per ciò che è più prezioso: la biodiversità funzionante del nostro pianeta. E non possiamo permetterci di smettere. Chiedetelo a Jane. È lei il mio paradigma, la mia guida su questo. L’ironia e il riso sono fondamentali. Anche nel dolore e nel disastro, dobbiamo saper cogliere l’assurdo e sorridere. E sì, amo fare battute.