Alain Schnapp – Storia universale delle rovine

Le ferite dell’uomo e del tempo

di Salvatore Settis

Alain Schnapp
Storia universale delle rovine

Dalle origini all’età dei Lumi
ed. orig. 2020, trad. dal francese di Anna Delfina Arcostanzo e Valentina Palombi,
pp. X-925, € 120,
Einaudi, Torino 2023

Alain Schnapp si distingue fra gli archeologi classici per un largo sguardo comparativo, e la dedica del libro a Jean-Pierre Vernant ne indica la matrice nella grande “svolta antropologica” dell’antichistica francese. Uno sguardo dall’alto sul mondo antico ispirò anni fa il libro collettivo da lui curato, World Antiquarianism. Comparative Perspectives (Getty Publications, 2014), che affrontava per la prima volta in tanta ampiezza lo studio delle testimonianze del passato, un percorso che dagli “antiquari” europei e cinesi sfocia nelle odierne archeologie. Se in quel libro la comparazione si articolava a parte subiecti (gli antiquari), questa veramente universale Storia delle rovine è costruita, invece, a parte obiecti, e propone un’analisi delle strategie della memoria collettiva a partire dalla domanda: “Che cos’è una rovina?”.

La “segreta attrazione per le rovine” diagnosticata una volta per tutte da Chateaubriand (1802) non basta a rispondere, dato che alcune culture si curano delle rovine, altre le ignorano. Ma Schnapp non indugia a coniare una formula definitoria. Nel suo telaio enciclopedico la risposta viene dalla tessitura storica e comparativa che si snoda a ogni pagina, intrecciando alla riflessione teorica una moltitudine di esempi in ogni lingua e in ogni angolo del globo. Balena tuttavia, per dir così negli interstizi tra un esempio e l’altro, l’ordito di alcuni concetti-chiave, disposti secondo coppie oppositive: natura e cultura, memoria e oblio, oralità e scrittura, le parole e le cose, il monumento e il documento, gli oggetti e le metafore, la presenza e l’assenza, continuità e discontinuità. Pedine tutte già ben schierate nella densa Introduzione.

Le rovine sono all’incrocio fra natura e cultura, anzi “il fascino della rovina sta nel fatto che un’opera dell’uomo possa esser percepita come un prodotto della natura” (Simmel). Davanti a un castello diroccato ci chiediamo se a ferirlo sia stato l’uomo, il Tempo, o entrambi: e il fragile discrimine fra queste ipotesi finisce col farle convergere. Per sapere di quegli eventi distruttivi, se l’oblio non ha sepolto ogni indizio, ci soccorre la memoria del passato, trasmessa a voce o affidata a dispositivi mnemonici come la scrittura. Ma le rovine stesse di quel castello non sono mute, anzi “dicono” qualcosa che può esser decifrato. Sono al tempo stesso monumento e documento (coincidenza esplorata da Le Goff), ma hanno una potente densità culturale e memoriale, che si condensa in metafore (il castello simboleggia la feudalità o la caducità delle cose umane). Le rovine segnalano insieme un’assenza e una presenza, contengono il visibile (il loro stato presente) e l’invisibile (la loro perduta interezza), e perciò incarnano la perenne tensione fra continuità e discontinuità. Potenti metafore del trauma della perdita (individuale o collettiva), le rovine agiscono, infine, come incentivo alla riflessione, a colmare un’assenza con qualcosa di nuovo.

A questa luce, le mille storie che il libro racconta proiettano l’una sull’altra ombre lunghe. Scopriamo impensate collezioni di antichità, come quella del palazzo di Nabucodonosor II a Babilonia (VI sec. a. C.), 34 iscrizioni e statue dal III millennio a.C. in poi. Rileggiamo il vertiginoso passo in cui Tucidide immagina in rovina la Sparta del V sec. a. C., povera di monumenti, “e i posteri non crederebbero alla sua potenza militare narrata dalle fonti”. Vediamo occhieggiare qualche rudere in pitture di Ercolano e di Stabia. Godiamo l’inatteso parallelo fra Petrarca davanti alle rovine romane e il gusto antiquario del cinese Ouyang Xiu (1007-1072). Ascoltiamo Augusto imperatore che in un’epigrafe narra in prima persona le sue azioni di governo, e cento pagine dopo ci imbattiamo nell’imperatore cinese Xuanzong (VIII secolo), che personalmente (dice) compose una grande iscrizione su pietra ricoperta d’oro. Troviamo in Giappone l’uso, da 1.300 anni in qua, di distruggere ritualmente ogni vent’anni il tempio shintoista di Ise (di legno), ricostruendolo tal quale: l’opposto della rovina, ma anche dei criteri europei di restauro. Percorriamo nel Medioevo le rovine di Roma, celebrate nei Mirabilia Urbis o nei Versus de Roma di Ildeberto di Lavardin (c. 1100), dove la memoria della città pagana si scontra con la metropoli cristiana. Incontriamo il principe Khalil Sultan, che nel 1419 si reca da Shiraz a Persepoli per inscenarvi una parata militare nelle rovine del palazzo degli Achemenidi, e vi lascia una sorprendente iscrizione. Negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti a Siena (circa 1340) scoviamo le immaginarie rovine provocate dal Cattivo governo. In dipinti di Botticelli, Ghirlandaio, Francesco di Giorgio vediamo le rovine insediarsi come scenario nelle Natività, a mostrare la transizione dal paganesimo alla nuova religione. Assistiamo al solenne ingresso di Enrico II di Francia a Rouen (1550), accoltovi da un villaggio di indios brasiliani, con piante, animali e capanne, dove indigeni veri e finti simulano una guerra locale. Sono, scrive Schnapp, “rovine del presente (…) vestigia viventi di un modo di vita in cui c’è qualcosa di arcaico che li apparenta alla rovina”.

Come mostra questo esempio, è il potenziale metaforico del termine “rovina” che domina il libro. Perciò vi sfilano non solo cadenti anfiteatri ma collezionisti, poeti, storici, filosofi che ci accompagnano fino al secolo dei Lumi. Una storia che ha fin troppo a che fare con le inquietudini del presente, fra nuove rovine e antiche speranze.

salvatore.settis@sns.it
S. Settis è archeologo e storico dell’arte

Distruzioni e rinnovamenti anche davanti ai nostri occhi

di Vincenzo Farinella

Le rovine di Roma antica – quelle reali, quelle ricostruite e quelle di fantasia – sono il tema della memorabile tela dedicata da Herman Posthumus nel 1536 al Tempus edax rerum, al Tempo che tutto divora: un dipinto che occupa il centro, diventandone anche, nell’edizione italiana, la copertina, del monumentale studio di Alain Schnapp. Lo spunto per questa “pietra miliare nella storia della pittura occidentale delle rovine” si trova in due versi delle Metamorfosi di Ovidio (XV, 234-235), dove il poeta latino evoca il “Tempo divoratore” e l’“odiosa Vecchiaia”, capaci di distruggere tutto, perfino la bellezza della donna più seducente, Elena di Troia, e il vigore del sommo atleta antico, Milone di Crotone. Nel dipinto Posthumus mette in scena la capacità del Tempo “edace” di sgretolare, con i suoi denti aguzzi, perfino le grandiose e apparentemente immortali rovine della Roma dei Cesari. Subito sotto l’epigrafe ovidiana, tuttavia, quasi a voler contraddire l’assunto morale del dipinto, un artista con un turbante sulla testa (forse un ideale autoritratto?) sta misurando un grandioso frammento architettonico. I monumenti antichi cadono sì in rovina, devastati dal trascorrere inesorabile del tempo e dalla colpevole incuria degli uomini, ma lo sforzo e la passione degli artisti moderni li possono ricostruire graficamente e idealmente riportare in vita, secondo la geniale tesi argomentata pochi anni prima da Raffaello e Baldassar Castiglione nella Lettera a Leone X.

Come tutti i “grandi” libri, questo imponente lavoro, capace di spaziare con impressionante facilità e competenza su epoche e culture diversissime, più che racchiudere il tema affrontato sembra aprirlo e renderlo disponibile a future indagini: ad esempio, nel capitolo centrale dedicato al Rinascimento italiano e alla sua capacità di intendere le rovine “come strumento di rinnovamento” verrebbe il desiderio di evocare, come un controcanto delle precocissime ricostruzioni archeologiche proposte dal giovane Mantegna negli affreschi della padovana Cappella Ovetari (distrutti non dal Tempo, ma da una bomba, nel 1944), il palazzo antico in rovina davanti al quale Borso d’Este incontra un professore dello Studio ferrarese, ideato da un pittore ancora più giovane, l’esordiente Ercole de’ Roberti nel Settembre di Schifanoia: in questa scena del Salone dei Mesi ci troviamo di fronte a una meditazione sul trascorrere del tempo, sulla corruttibilità anche delle più splendide opere dell’uomo; quasi un lamento, come quello tante volte intonato dai letterati, sul destino di morte che grava perfino sui colossali monumenti di Roma antica.

Così come, appena chiuso un volume che conta oltre 900 pagine, estendendosi “dalle origini all’età dei Lumi”, verrebbe voglia di impegnarsi a raccontarne il seguito, riprendendo le mosse dal nuovo culto tributato dal romanticismo nordico alle rovine, rivolto non più o non solo ai “fori cadenti” del mondo classico, ma alle rovine intrise di spiritualità degli edifici medievali. Il punto di partenza potrebbe essere una tela dipinta nel 1810 dal più grande paesaggista romantico, Caspar David Friedrich, dove le pareti di un’abbazia abbandonata si ergono in una livida e fredda alba, perforando il cielo e la coltre di nebbia, mentre una lenta teoria di monaci sfila in processione attraverso un querceto, trasportando un defunto verso la sepoltura. E ci si vorrebbe spingere fino a un’opera creata nel 2021 da Anselm Kiefer per il Palazzo Ducale di Venezia: in Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce (Andrea Emo), è l’immagine stessa di Venezia, i suoi monumenti più famosi di piazza San Marco anneriti dalle fiamme, che stanno trasformandosi in rovine davanti ai nostri occhi. Inghiottiti da queste tele visionarie e ribollenti di colore e di materia, non possiamo non pensare alle rovine delle città distrutte dalle guerre che ogni giorno, dai notiziari, rimbalzano nelle nostre case (“più devastazioni che rovine”, avrebbe detto Chateaubriand); vengono alla mente le parole di Gabriele Basilico, quando gli fu chiesto, nel 1991, di fotografare le rovine di Beirut: “Avevo un problema etico, non volevo fare il Piranesi della situazione, non volevo fare un lavoro estetizzante sulle rovine, … sarebbe stato tutto un tradimento della mia missione … Ho avuto bisogno di tempo, ma poi tutto è stato chiaro: Beirut non era morta, sullo sfondo respirava ancora, potevo cominciare a fotografarla”.

vincenzo.farinella@unipi.it
V. Farinella insegna storia dell’arte moderna all’Università di Pisa