Corpo, azione, sentimento, fantasia

Insegnare arte e anarchia

recensione di Federica Rovati

dal numero di giugno 2016

Francesco Arcangeli
CORPO, AZIONE, SENTIMENTO, FANTASIA
Naturalismo ed espressionismo nella tradizione artistica emiliano-bolognese 
Lezioni 1967-1970
a cura di Vanessa Pietrantonio, 2 voll.
pp. 602, € 48
Il Mulino, Bologna 2015

Francesco Arcangeli - Corpo, azione, sentimento, fantasiaLa pubblicazione dei corsi svolti da Francesco Arcangeli all’Università di Bologna fra il 1967 e il 1970 (con una prefazione di Vera Fortunati), non aggiunge molti elementi nuovi alla conoscenza dello storico dell’arte di cui libri, articoli, cataloghi di mostre hanno già chiarito le linee fondamentali di pensiero: queste lezioni costituiscono il precipitato di un itinerario formativo iniziato trent’anni prima, nello stesso ateneo, sotto la guida di Roberto Longhi, il quale aveva insegnato ai suoi allievi ad aprire lo sguardo su fenomeni difformi dalla norma esclusiva del classicismo, che era allora riconosciuto come struttura portante della cultura artistica italiana. Non era stato, quello di Arcangeli, un percorso rettilineo, dopo tale inizio: corpo, azione, sentimento, fantasia non sono vocaboli longhiani e dicono bene la dimensione fisica, non intellettuale, che preme nel lavoro degli artisti infine privilegiati dallo studioso ormai cinquantenne, dalla plastica greve di Wiligelmo alla densità materica dei quadri morandiani, dalle inquietudini di Vitale da Bologna e di Amico Aspertini all’intensità sentimentale di Ludovico Carracci e di Giuseppe Maria Crespi; e sono vocaboli, soprattutto i primi, imposti dalla conoscenza dell’arte contemporanea, nel suo percorso secolare: dentro, c’è la gestualità sfrenata di Jackson Pollock, l’aggressività di William de Kooning, la bruciante inventiva di William Turner. Queste lezioni universitarie hanno però il pregio di convalidare nella riflessione di Arcangeli la persistenza di una componente intimamente politica di cui si tende troppo spesso a dissimulare la presenza e di cui si avverte a maggior ragione la latitanza nell’edizione critica dei volumi recenti: erano gli anni della contestazione studentesca, come si possono trascurare le continue professioni di fede anarchica che intervengono nel discorso di Arcangeli? Come evitare di inserire quelle parole nella rete delle vicende contemporanee cui esse fanno peraltro esplicito riferimento?

Un dipinto di Jackson Pollock

Per Arcangeli l’anarchia non era un’infatuazione momentanea, era una lunga convinzione, maturata almeno da una decina d’anni, in parallelo alla scoperta liberatoria dell’action painting: un modo di agire fuori dagli schemi coercitivi di tradizioni accettate per inerzia, per convenienza; una scelta terribile e spericolata nel suo prendere corpo in uno spazio di possibilità infinite, cioè nel vuoto della libertà; un gesto non di negazione irresponsabile (tirare le bombe è il lato infantile dell’anarchia, diceva Arcangeli), ma di apertura incondizionata alla conoscenza di ciò che esiste attorno a noi, senza preclusioni dettate dalla fedeltà a un sistema di verità formulate a tavolino. Ecco, invece, “il senso, esaltante ed angoscioso ad un tempo, che la vita dell’uomo presenti tuttora spazi oscuri e non decisi, ‘incognite’ che contraddicono ancora la riuscita di molte equazioni, imprevisti che disturbano tante programmazioni”: è un passo dell’introduzione alle lezioni su Wiligelmo, fra le più intense dell’intero ciclo didattico. Per quanto Arcangeli confessasse di averli allacciati d’impulso nella titolazione del corso, i termini di corpo, azione, sentimento, fantasia erano nati in modo necessario dall’esclusione di pretesi valori di segno opposto: “per ipotesi, idea, contemplazione, lucidezza mentale, equilibrio”.

L’arte lavora dove finisce il sapere

Queste convinzioni anarchiche potrebbero forse essere trascurate se costituissero un’espressione collaterale all’attività specifica dello storico dell’arte, senza interferenze significative nella comprensione delle opere: dico, forse. Ma esse nutrivano in profondità il pensiero critico di Arcangeli, come dimostra il saggio Una situazione non improbabile del 1957 in cui furono per la prima volta formulate; e si avveravano nella decisa contestazione delle vantate certezze del sapere scientifico di cui veniva ribadita nelle lezioni universitarie la dimensione soltanto umana, ossia storica, quindi non assoluta, affermando che la storia dell’arte lavora “proprio là dove finisce il sapere orientato e programmato dalla ricerca e comincia il ‘non sapere’”, fino ad arrivare alla definizione dell’arte come “fatto polisenso e poliinterpretabile”. Quando riconosceva come nella scultura di Wiligelmo la costruzione sintattica muova dall’elemento singolo e non dalla definizione di una struttura astratta cui poi le figure sono costrette ad adeguarsi; quando riconosceva davanti ad Aspertini che “non c’è premeditazione spaziale per l’azione umana, ma che è il corpo stesso dell’uomo e la sua azione a creare lo spazio”; quando faceva capire come gli strumenti espressivi non siano ugualmente disponibili al lavoro creativo ma scaturiscano da pressioni contingenti di ogni artista, che deve reinventarli daccapo in ogni opera, in questi e in altri casi Arcangeli non illuminava soltanto i caratteri peculiari di un linguaggio formale e i metodi analitici della storia dell’arte, ma esprimeva anche contenuti propri della concezione anarchica, che è fondata sul valore essenziale della responsabilità individuale, nel tessuto concreto della storia.

Dipinto di William Turner

Dipinto di William Turner

Privato di questa dimensione civile, e non ideologica, il lavoro di Arcangeli perde profondità, mentre gli studi che se ne occupano finiscono per accarezzare un’immagine agiografica dello studioso, inoffensiva se non inerte, tutta ripiegata sulla contemplazione di esperienze inattuali: un’operazione non troppo diversa da quella che egli stesso denunciava davanti alla generale imbalsamazione del caso Morandi. Forse per questo la curatela dei due volumi si smaglia nella ricostruzione dei fatti accaduti dentro e fuori l’ateneo bolognese, lasciando indefinite le date, le ragioni e le conseguenze a livello locale della generale contestazione del sistema universitario, lasciando imprecisato il ruolo delle istituzioni e soprattutto incerte le posizioni assunte dai docenti, e da Arcangeli in particolare, davanti agli studenti. Ma nel 1968, alla ripresa delle lezioni che erano state bruscamente interrotte, egli volle intervenire sulle questioni sollevate dal movimento studentesco per distinguere fra due diverse modalità didattiche, quella della lezione accademica “formativa di repressori e di despoti mentali”, quando è intesa in modo dogmatico, e quella della lezione quale occasione offerta agli studenti per seguire gli andamenti e i problemi di un ragionamento critico nel suo farsi; tracciò un confine molto netto fra la pratica dell’intellettuale, il quale tende a coartare la realtà, e a modificarla, sulla base di interpretazioni e soluzioni basate unicamente sugli schemi forgiati dal proprio intelletto, e la pratica viva dell’uomo pensante; e concluse: “noi crediamo soltanto alle faticosissime contestazioni parziali, e non al mito nuovamente alienante della contestazione globale”. Nel 1969, nel corso di un convegno, Arcangeli lo dichiarò con franchezza: “Io spero di fare dell’Istituto di Storia dell’arte di Bologna una cellula anarchica”; è questo il senso che innerva gli ultimi suoi vent’anni: perderlo di vista, non capirlo, significa privare il suo insegnamento di audacia.

federica.rovati@unito.it

F Rovati insegna storia dell’arte contemporanea all’Università di Torino