Andrey Zvyagintsev – Loveless

Cronaca di una scomparsa

recensione di Francesco Pettinari

dal numero di dicembre 2017

Andrey Zvyagintsev
LOVELESS
con Maryana Spivak, Aleksey Rozin, Matvey Novikov, Marina Vasilyeva, Andris Keiss
Russia 2017

Andrey Zvyaginstev - LovelessLoveless di Andrey Zvyagintsev è stato uno dei film più acclamati del concorso all’ultimo Festival di Cannes, dove si è aggiudicato il Premio della Giuria; è il candidato della Russia per la corsa all’Oscar come miglior film in lingua straniera; ha ottenuto una serie di importanti riconoscimenti, tra i quali la vittoria del London Film Festival; ai premi assegnati dall’Efa (European Film Academy) il film ha ottenuto il premio principale per il direttore della fotografia, Mikhail Krichman, e per la colonna sonora curata da Evgueni e Sacha Galperine,  nonché la nomination come miglior film, miglior regia, e migliore sceneggiatura; soprattutto, Loveless (Nelyubov, il titolo originale, indica l’atto di non amare) è la conferma di uno dei maggiori talenti del cinema russo contemporaneo.
La trama è racchiusa in una struttura formale potentissima, per cui questa è un’opera, come i film precedenti del regista siberiano – Il ritorno, The Banishment, Elena, Leviathan -, in cui fabula e intreccio sono legati indissolubilmente. Un prologo e un epilogo mostrano uno sguardo lirico su una natura invernale cristallizzata in uno stato di immobilità e di impossibilità di cambiamento che già anticipa il significato profondo della vicenda. Alyosha, un ragazzino di dodici anni, esce da scuola e per tornare a casa attraversa una porzione di natura che sembrerebbe un bosco selvaggio, invece è adiacente alla periferia di Mosca dove vive. Lo spettatore è subito proiettato nella drammaticità della vicenda: Zhenya e Boris, i genitori di Alyosha, si stanno separando, hanno messo in vendita l’appartamento, e nessuno dei due vuole tenere con sé il ragazzino, il quale ascolta un confronto verbalmente violento tra i suoi, dove gli si prospetta un futuro in istituto, e lui, nel buio della sua camera, piange, appiattito contro la parete, come se volesse sparire.

Un precipitato di angoscia crescente

La giornata successiva mostra, in montaggio alternato, la nuova vita che sia Boris sia Zhenya hanno già avviato fuori del loro rapporto: lui ha una relazione con una ragazza più giovane dalla quale aspetta un figlio, lei si è legata a un uomo più grande, già divorziato, padre di una ragazza diciannovenne che studia in Portogallo. Il mattino successivo Alyosha è scomparso. Da questo momento, il racconto è un precipitato di angoscia crescente: la polizia stessa denuncia la propria lentezza burocratica e indirizza le ricerche del ragazzino a un gruppo di volontari che fanno tutto il possibile. La dinamica narrativa assume i tratti di un falso thriller che procede con la ricerca nei luoghi più sospetti: la isba della nonna materna; il rifugio in un istituto abbandonato dove Alyosha e il suo unico amico si incontravano;  il terreno principale di indagine è però la natura, il bosco invernale, spettrale, tetro.

La fuga come gesto di ribellione lasca spazio a ipotesi di incidente o di rapimento: i falsi allarmi conducono la coppia anche all’ospedale e, nel prefinale, all’obitorio, una delle scene più potenti, dove, ormai inutile, esplode il senso di colpa di entrambi. Di Alyosha nessuna traccia. Il superbo finale mostra, dopo qualche tempo, un frammento della nuova vita di Boris e di Zhenya: lui costretto in uno spazio angusto a vivere con moglie e suocera ingombrante e a ripetere verso il nuovo figlio l’atteggiamento livido che aveva con Alyosha; lei, nell’elegante open space del suo compagno benestante, inchiodata a una vita fatta di pose, di selfie, e dell’illusione di aver dato inizio a qualcosa di nuovo – come dimostra la sequenza del tapis-roulant. Su tutto, la scomparsa definitiva di Alyosha sancisce il fallimento di entrambi non solo come genitori, ma come esseri umani, come rappresentanti di un’umanità che incarna l’egoismo, la volontà di affermazione sociale, la libertà intesa come incapacità a assumersi le responsabilità; in quanto ricercano la felicità personale appaiono come mostri che hanno dimenticato ogni valore, persino la tenerezza per un figlio – il fatto è che questo referto, all’insegna del più nero pessimismo, non vale certo solo per la Russia modernizzata di Putin.

Il pregio della ricercatezza formale che è visibile in ogni inquadratura e che si arresta sempre a un passo dall’estetismo fine a se stesso; la ricerca di un senso dell’immagine cinematografica che faccia da contrappunto al girare a vuoto delle vite dei personaggi; l’utilizzo del piano sequenza che comunque nulla toglie alla tensione e all’implacabilità del precipitare degli eventi; i movimenti della macchina da presa calcolati con precisione maniacale; la capacità di sfruttare in senso narrativo e stilistico la profondità di campo; tutti questi elementi fanno di questo film un’esperienza visiva di grande impatto e di assoluto valore. A fronte di chi sostiene che questo sia un cinema all’insegna dello schematismo e di un’eccessiva inclinazione per la metafora, politica o morale, giova ricordare  che la cinematografia russa è nata come quella formalista per eccellenza, e che Zvyagintsev si colloca, con pieno merito, su un asse di registi che parte da Ejzenštejn, passa per Tarkovskij e arriva fino a Sokurov.

fravaz_tin_it@hotmail.com

F Pettinari è critico cinematografico

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