Ewan McGregor – American Pastoral

Una minuziosità difficile da restituire

recensione di Andrea Mattacheo

dal numero di dicembre 2016

Ewan McGregor
AMERICAN PASTORAL
con Ewan McGregor, Jennifer Connelly, Dakota Fanning, David Strathairn, Uzo Adub
Usa 2016

ewan-mcgregor-american-pastoralQuando Hitchcock parla a Truffaut dei rapporti tra il cinema e la letteratura, nella famosa intervista divenuta un volume ormai leggendario (di cui ricorrono quest’anno i cinquant’anni), racconta al collega francese la storia di due capre che, mentre stanno mangiando la bobina di un film tratto da un bestseller, hanno un dialogo nel quale una dice all’altra: «Era meglio il libro». È una frase che accade spesso di sentire uscendo dal cinema, ed è un pensiero che chiunque si è ritrovato a fare, più o meno in segreto a seconda del proprio livello di snobismo. Si tratta di un luogo comune, molto probabilmente dettato dall’inconscia volontà di chi consuma prodotti culturali di riaffermare la superiorità del mezzo letterario su quello cinematografico. Per fortuna però libri e film non si brucano, e non siamo costretti a stabilire se gli uni abbiano un sapore migliore degli altri, magari perché più delicati o pregiati. Un altro luogo comune vuole che dai grandi romanzi non si possano trarre film altrettanto grandi, e che invece siano estremamente adatti allo schermo i libri minori, la letteratura di consumo e pulp. Questo adagio, che pure lascia intravedere lo stesso pregiudizio posto a difesa dell’autorità della parola scritta, può trovare in parte una giustificazione nella storia del cinema. A Hollywood nel periodo classico sono stati infatti saccheggiati romanzi d’appendice, dai quali sono poi nati alcuni dei film più rilevanti di quella stagione; film apprezzati anche da quel pubblico propenso a considerare la letteratura arte dal sapore più raffinato rispetto al cinema. In un sistema industriale che richiedeva la produzione di storie in serie, confrontarsi con testi canonizzati era sconsigliabile, ed era certo più facile servirsi di un bacino di trame preconfezionate senza pretese, che sceneggiatori e registi potevano svuotare e utilizzare come scheletro su cui mettere poi la loro carne.

Forse era meglio il libro

Eppure la storia del cinema, anche di quello di massa, non manca di straordinari adattamenti da libri illustri, che vanno da Furore di John Ford a Vizio di forma di Paul Thomas Anderson, passando per Oltre il giardino di Hal Ashby. Al di là dei luoghi comuni e dei pregiudizi si tratta di riconoscere alla letteratura e al cinema specificità differenti, alla luce delle quali da romanzi importanti possono nascere film che sono in grado di restituirne lo spirito pur discostandosi in modi più o meno evidenti dalla lettera. Dove per lettera s’intendono le parole, lo stile e insieme la trama, di un’opera, e per spirito il suo senso profondo. Sono termini che risalgono agli inizi della teoria dell’adattamento, un po’ ingenui, poco definiti e superati, ma restano di fatto efficaci come poli intorno ai quali riflettere quando ci si trova di fronte a un film che ha un precedente romanzesco.

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Pur avendo chiara questa premessa, è difficile dopo aver visto American Pastoral, se si conosce e si è amato il romanzo, non avere la tentazione di limitarsi a essere un po’ capra e dire: «Beh sì… era meglio il libro». Questo però non tanto perché Ewan McGregor abbia deciso di confrontarsi con Philip Roth, e con un «capolavoro intoccabile», quanto per la particolare natura di Pastorale americana, un libro in cui, come in poche altri, lettera e spirito sono inscindibili. Di fronte al romanzo di Roth qualsiasi operazione di riduzione appare impossibile, o comunque estremamente complessa, perché il suo senso profondo risiede in ogni singola parola. Non è possibile cristallizzarne l’atmosfera per poi calarla nel proprio universo come hanno fatto i fratelli Coen con Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy. Oppure fare come Paul Thomas Anderson, che del caos di Pynchon ha saputo condensare una serie di situazioni grottesche e le ha ricondotte a quanto il suo sguardo riteneva ci fosse in esse di essenziale.

La ricca sconfinatezza del dettaglio

Lo spirito di Pastorale americana sembra essere irriducibile perché risiede completamente nella profondità e nell’immensità del dettaglio: «la ricca sconfinatezza del dettaglio che ti circonda come i due metri di terra che saranno pressati sulla tua tomba quando sarai morto». Nathan Zuckerman ricostruisce la vicenda di Seymour Levov con un occhio e una voce in grado di rivelare l’oceano di dettagli nascosto sulla superficie della realtà, definendo un universo in cui l’unica certezza è il fluire dell’esistenza nel suo essere per tutti ugualmente dolorosa. Restare fedele alla lettera di Roth, come cerca di fare McGregor, è una via quanto mai impervia da praticare, nella misura in cui la storia dello Svedese non è soltanto quella di un uomo apparentemente destinato ad avere una vita perfetta, che invece non è stato in grado di tenere legata a sé la persona che più amava al mondo, come pure potrebbe essere riassunto il libro riducendolo all’osso. La lettera e lo spirito di Pastorale americana risiedono insieme in ogni più piccola sfumatura degli uomini e delle donne che a quella storia prendono parte e la costituiscono. Perdendo una minuziosità difficilissima da restituire al cinema, si perde per forza di cose anche il senso profondo; anzi lo si stravolge.

Se quindi nel romanzo Zuckerman mostra con ostinazione quanto di ordinario si celi nello straordinario, e quanto la tragedia di Levov sia quella dell’incomprensibilità del dolore, «dell’uomo impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti». Nel film al contrario quella dello Svedese è la tragedia straordinaria di un uomo che resta straordinario e monolitico, anche nel dolore e nella colpa che lo dovrebbero avvicinare a chi non è l’incarnazione di un sogno. Allo stesso modo se in Roth la storia ha il respiro corto, e ti si para davanti all’improvviso, nel film invece assume la forma del grande evento riassunto in un sussidiario scolastico; e un ufficio postale che esplode nella campagna del New Jersey assume la dimensione di una cattedrale o di un grattacielo, mentre su carta è proprio il fatto che sia solo un ufficio postale ad aprire un abisso in chi legge. Nella forma del melodramma storico che prende così American Pastoral, ogni scelta sembra frutto di una passione irrazionale e ogni personaggio ha contorni netti e definiti. E svaniscono in questo modo le centinaia e centinaia di dubbi che ci abitano durante la lettura del romanzo: Seymour Levov è una brava persona oppure un mostro? Sua moglie è una vittima o una carnefice? La ribellione della figlia è quella di una ragazzina viziata oppure ha le sue ragioni?

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Nessuno di questi dubbi nel libro trova davvero una soluzione. Levov è una brava persona e un mostro, sua moglie è vittima e carnefice, e la figlia viziata e ingrata ha le sue ragioni. In Pastorale americana il narratore interroga di continuo il reale che si dispiega di fronte ai suoi occhi, ponendogli incessantemente la domanda che lo Svedese mai aveva pensato di doversi fare nella vita: perché le cose sono come sono? È un interrogativo privo di risposta e Zuckerman/Roth anche dopo quattrocento pagine non può far altro che arrivare a porsi ancora, soltanto, una domanda: cosa diavolo c’è di meno riprovevole della vita dei Levov? Ma anche dopo averne scandagliato l’esistenza questa domanda non ha una risposta, e può essere rigirata senza perdere di significato: c’è qualcosa di più riprovevole della vita dei Levov? E di ogni vita? In American Pastoral tutti questi punti interrogativi spariscono, lasciando il posto a un dramma svuotato dell’incertezza alla base della sua universalità, in cui il passato e le sue ferite hanno il colore rassicurante della nostalgia; che ha quantomeno il pregio di far venire voglia di riprendere in mano il libro, o di leggerlo la prima volta per scoprire che forse c’è qualcos’altro da sapere sullo Svedese.

andrea_mat@libero.it

A Mattacheo è editor e dottorando presso il dipartimento di studi umanistici dell’Università di Torino

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