Fermenti di cambiamento
di Grazia Paganelli
I primi film passati alla 71esima edizione del Festival di Cannes promettono una stagione cinematografica ricca di sguardi vibranti e in mutamento, capaci di osare e di provocare, interessati a nuove strade, seppur radicati in una certa idea di tradizione. Bisogna però avere pazienza, andare oltre il primo impatto e non giudicare (solo) dalle apparenze, dal momento che i controlli si sono intensificati e costringono tutti a interminabili code davanti agli ingressi, come fossimo in un aeroporto internazionale di una zona di guerra, con tanto di metal detector e cestelli per il controllo delle borse. Solo cosĂŹ ci si rende conto che il cinema inserito in questa edizione può riservare sorprese per lâintensitĂ formale e lâimpegno politico dei film scelti. Ci sono ovunque i fermenti di un cambiamento che può essere sostanziale, e va ben al di lĂ del divieto di scattare selfie sul tappeto rosso o del dissidio tra festival e Netflix. Ne è testimonianza la presenza a Cannes nelle sezioni ufficiali di film âinfiltratiâ e di registi invisi ai governi dei loro paesi dâorigine per i temi scomodi da loro affrontati.

Leto, di Kirill Serebrennikov
Si pensi allâiraniano Jafar Panahi, che manda a Cannes il suo 3 Faces, mentre è agli arresti domiciliari nella sua casa di Tehran dal 2010 per i noti contrasti con il potere, o al russo Kirill Serebrennikov, anche lui al centro di una controversa questione squisitamente politica (e quindi assente), nonostante in concorso sia giĂ passato il suo film Leto, splendido racconto in bianco e nero di come si impose la scena rock a Leningrado nei primi anni Ottanta, quando stava cambiando per sempre unâintera generazione di giovani. Per mostrarci la storia del musicista Viktor, infatti, Serebrennikov osa un linguaggio ricco di segni e descrive con raffinatezza personaggi ribelli, rappresentativi di una gioventĂš inquieta e incapace di accettare le restrizioni ideologiche e culturali negli anni in cui per lâUnione Sovietica si andava definitivamente chiudendo unâepoca.
Rafiki, “moderna storia d’amore africana”
Ă giĂ stato vietato con disonore in Kenya, invece, Rafiki della regista quasi esordiente Wanuri Kahiu (il secondo film della sezione Un Certain Regard), che sceglie il tabĂš dellâomosessualitĂ per la sua âmoderna storia dâamore africanaâ che coinvolge due ragazze in unâestate di radicali cambiamenti. Coraggioso ma dolce, lo sguardo della trentottenne Wanuri Kahiu popola le immagini di toni lievi e forme arrotondate, come a voler proteggere il cuore fragile di un film che sceglie la purezza per arrivare allo spettatore.
Tratto dal racconto della scrittrice ugandese Monica Arac de Nyeko, Jambula Tree (2007), Rafiki (che in lingua swahili significa amica, ma anche fidanzata) è un film saggio e generoso, essenziale e pungente, capace con estrema precisione di usare lâallusione e affidare alla forma, colorata e pop, il compito di descrivere i vari livelli di un microcosmo solo apparentemente manicheo. Anche in una societĂ dove lâomosessualità è illegale, esistono infinite sfumature nei sentimenti delle persone che vale la pena indagare e interrogare con continuitĂ . Nessun melodramma o tragedia finale, quindi, nonostante la storia proceda secondo canoni noti (le due ragazze vengono scoperte, punite e allontanate dallo stesso microcosmo in cui sembravano integrate). Si impone la volontĂ di procedere con la narrazione oltre lâurgenza, scegliendo di restare dentro le vite dei personaggi e al loro fianco.
Everybody Knows, il passato che non passa
Il concorso, però, si è aperto con il nuovo film di Asghar Farhadi, Everybody Knows (che sarà distribuito in Italia in autunno da Lucky Red), in cui il regista iraniano di Una separazione sceglie il sud della Spagna per una storia come sempre famigliare, ma con venature noir a lui care da sempre.
Laura torna in Spagna per il matrimonio della sorella, ma durante i festeggiamenti qualcuno rapisce la figlia adolescente e minaccia di ucciderla se non sarĂ pagato lâingente riscatto. Il passato che non passa e resta impigliato e latente nelle vite di uomini e donne, fino a riemergere improvvisamente travolgendo ogni equilibrio. Ci sono tutti gli elementi del Farhadi che conosciamo, espressi, però, con meno forza, come se la ricerca delle molte veritĂ che stanno al centro del film fosse meno importante di unâordinata scrittura che ne attutisce lâimpatto.
paganelli@museocinema.it
G Paganelli è critico cinematografico