Martin Scorsese – Silence

La tonaca e la regia: una fede lontana dai riti

recensione di Matteo Pollone

dal numero di febbraio 2017

Martin Scorsese
SILENCE
con Andrew Garfield, Adam Driver, Liam Neeson, Tadanobu Asano, Ciarán Hinds
Stati Uniti-Taiwan-Messico-Italia-Regno Unito-Giappone 2016

Martin Scorsese - SilenceIl 10 gennaio 2017, quindi nemmeno venti giorni dopo l’uscita in sala negli Stati Uniti, un articolo del “New York Post” firmato da Kyle Smith definisce Silence, l’ultimo film di Martin Scorsese, «one of the biggest disasters of Scorsese’s career». Ciò che sostiene Smith sintetizza perfettamente il pensiero della critica americana e la partecipazione del pubblico nei confronti di un film che si sta confermando, settimana dopo settimana, un grosso insuccesso commerciale. Un esito forse prevedibile per la storia dei due missionari gesuiti (Andrew Garfield e Adam Driver) che, nel Giappone del XVII secolo, si mettono alla ricerca del loro maestro e mentore, padre Ferrera (Liam Neeson), in un momento in cui la feroce repressione nei confronti dei cristiani da parte delle autorità locali mette in più occasioni in pericolo la loro vita e soprattutto la loro fede. Temi che il grande pubblico non sembra accostare automaticamente alla poetica di Scorsese, qui del resto impegnato ad asciugare il suo stile dopo il vorticoso e roboante tour de force di The Wolf of Wall Street. Il ritmo solenne, scandito con lentezza, di Silence trova un esplicito corrispettivo visivo nella volontà di non spettacolarizzare alcuna scena, di costruire un’opera che non sarà ricordata, come invece ancora avveniva con L’ultima tentazione di Cristo o Kundun, per l’aggressività e la mobilità della macchina da presa. I due film citati sono ovviamente i primi esempi che vengono alla mente quando si guarda alla carriera dell’autore alla ricerca di punti di riferimento saldi, di precedenti rispetto a questo esperimento apparentemente lontano dalle consuetudini scorsesiane, ma è in realtà persino ovvio ribadire come ciò che L’ultima tentazione di Cristo, Kundun e Silence trattano in maniera diretta, ovvero i temi della religione, della fede e del sacro, siano travi portanti dell’intera produzione del regista italoamericano che, da ragazzo, dovette scegliere tra diventare un prete o dedicare invece la propria vita al cinema.

Urgenza interiore

Scorsese legge Silenzio, il romanzo storico dello scrittore giapponese convertito al cattolicesimo Shūsaku Endō, quando si trova in Giappone per prendere parte a Sogni, il film di Akira Kurosawa distribuito nel 1990 in cui interpreta Vincent Van Gogh. Da allora tenta inutilmente di portarlo sullo schermo: un destino simile a quello di Gangs of New York, progetto inseguito per anni e sceneggiato, come Silence, da Jay Cocks. Nonostante la lunga gestazione, che ha reso Silence certamente un’opera ponderata, il film contemporaneamente denuncia un’urgenza che sembra provenire direttamente dalle pieghe della vita dello stesso Scorsese. Se infatti non si percepisce il vissuto del regista in termini di un mondo abitato e analizzato in profondità (le comunità italoamericane, il crimine organizzato, ecc.) ci si rende conto, man mano che ci si immerge nella visione, quanto l’intento di Scorsese sia quello di realizzare un’opera dal carattere puramente speculativo. Se parliamo di antispettacolarità, naturalmente, lo facciamo in rapporto alle altre opere del regista: Silence non è ovviamente un film bressoniano nelle forme quanto lo è nei temi e nelle conclusioni a cui giunge rispetto alla questione della grazia, che il regista ha dichiarato più volte di aver compreso e interiorizzato grazie alla visione di Diario di un curato di campagna. Un film essenziale, dunque, che rinuncia quasi completamente all’accompagnamento musicale e che lavora molto sulla rappresentazione dei quattro elementi naturali e dei corpi umani spogli, scavati, feriti, sporchi, talvolta lacerati. La violenza che il film sprigiona è anch’essa realizzata attraverso un’accurata distanza emotiva: le scene brutali non sono mai rese con brutalità e la macchina da presa di Scorsese si tiene quasi sempre a distanza dalle efferatezze, contrariamente a ciò cui il regista ha abituato il suo pubblico nei suoi lunghi anni di carriera.

Martin Scorsese - Silence

Questa rinuncia al virtuosismo e ricerca dell’essenziale va ancora oltre se si osservano le peculiari scelte di casting: a partire dall’ex Spider-Man Andrew Garfield (padre Rodrigues, protagonista dell’intera vicenda), gli attori di questo film non sono chiamati a dare corpo a personaggi tridimensionali, ma talvolta a concetti astratti e talvolta a pure funzioni, come nel caso del “traditore” Kichijiro, colui che permetterà a Rodrigues di ritrovare una dimensione spirituale dopo l’annichilimento della tortura. Se solo a tratti sembra esserci traccia della “firma” dell’autore nelle inquadrature e nel montaggio, così si ritroverà raramente la mano di Scorsese nella direzione degli attori, quasi tutti piuttosto incolori. È lecito pensare che la scelta di Liam Neeson per il ruolo del mentore dei due protagonisti, il prete che sceglie di abiurare, derivi soprattutto dalle origini irlandesi e cattoliche dell’attore, capace forse più di altri di comprendere il tormento di un personaggio che cede alla tortura e rinnega la sua fede. Ma se il volto di Neeson, già memorabile “prete guerriero” in Gangs of New York, è in fondo quello maggiormente rassicurante per uno spettatore – smarrito anch’egli all’interno dei paesaggi naturali dell’Isola di Formosa e dintorni (dove Silence è stato girato) – che cerchi tracce del cinema scorsesiano, quello del belloccio Andrew Garfield, così ostentatamente alieno al mondo del regista e contemporaneamente a quello del film, costringe chi guarda a distaccarsi emotivamente dal racconto, che appare, di minuto in minuto, sempre più implausibile e meno ancorato alla verosimiglianza.

Allucinata e frammentaria

Silence, quindi, non è ovviamente un racconto storico. Soprattutto a partire dal momento in cui Rodrigues, separatosi dall’amico, rimane solo, il doloroso percorso interiore del personaggio prende il sopravvento sul racconto dei fatti, dando all’opera un tono allucinato e frammentario. In questo senso, il precedente più illustre di Silence è proprio Taxi Driver, un altro film sul progressivo distacco dal mondo reale verso una dimensione tutta interiore. La follia di Travis trova qui un corrispettivo nel tormento fisico e spirituale di Rodrigues: le varie tappe del suo calvario servono a dare forza al vero racconto del film, che è quello del dubbio che prende il posto della fede, dell’interrogarsi sul senso ultimo della religione cristiana e del proprio ruolo nel mondo.

Se limiti vi sono, in questa volontà di creare un’opera che sia, in ultima analisi, più una speculazione filosofica che uno spettacolare racconto di repressione e violenza, questi sono da riscontrare nella paura che sembra avere Scorsese di non essere compreso fino in fondo dai suoi spettatori. Se magistrali e volutamente aperti sono i confronti verbali tra Rodrigues e le autorità buddiste o tra Rodrigues e l’apostata (dibattiti politici e concettuali resi sempre con essenziali campo/controcampo), meno efficaci sono i frammenti in cui il discorso di Scorsese si fa diretto, affermativo. La condanna del narcisismo estremista dei missionari disposti al martirio, ad esempio, è esplicitata in una scena in cui Rodrigues si specchia in una pozza d’acqua e vede il suo volto trasformarsi (grazie a un goffo effetto digitale) in quello di Cristo. Questa volontà, da parte di Scorsese, di sottolineare un pensiero che il racconto in sé esprime con sufficiente chiarezza, trova la massima risoluzione didascalica nell’inquadratura finale – anch’essa realizzata attraverso un effetto digitale – e soprattutto nel momento chiave dell’opera, quando Rodrigues decide di abiurare e sente finalmente la voce di Dio, che ha invocato per tutto il racconto ricevendo in cambio solo il silenzio che dà il titolo al film, e che infine finirà per accettare, quando ritroverà la propria fede lontano dalla dottrina e dalla stretta osservanza al rito.

Silence, in conclusione, è evidentemente uno dei film più personali di Scorsese. Un’opera in cui il regista si mette a nudo come individuo prima che come cineasta, chiedendo al pubblico di calpestare con lui i tanti feticci cinefili che tutti noi amiamo ritrovare nel percorso di un autore così riconoscibile. 160 minuti di purificazione, che conducono a un’opera sicuramente imperfetta ma proprio per questo intensa e affascinante.

matteo.pollone@unito.it

M Pollone insegna storia delle teoriche del cinema all’Università di Genova