Pablo Larraín – Jackie

Costruire il mito attraverso una lunga marcia funebre

recensione di Giaime Alonge

dal numero di aprile 2017

Pablo Larraín
JACKIE
con Natalie Portman, Peter Sarsgaard, Greta Gerwig, Billy Crudup, John Hurt
Usa 2016

Pablo Larrain - JackieNella lunga storia dei legami tra cinema e politica, i film sui presidenti degli Stati Uniti – presidenti realmente esistiti o inventati dagli sceneggiatori – rappresentano una storia a sé, un corpus fitto di titoli che parte dall’epoca del muto e arriva fino ai nostri giorni, e che ovviamente si allarga anche alla serialità televisiva, da West Wing a House of Cards. In quel corpus, John Fitzgerald Kennedy, la sua presidenza e il suo clan, giocano un ruolo di primissimo piano. Innanzitutto, il nesso tra Kennedy e la cultura audiovisiva è parte integrante dello stesso percorso politico del presidente assassinato a Dallas nel novembre del 1963. Infatti, le elezioni del 1960, in cui Kennedy sconfisse per uno stretto margine di voti il repubblicano Richard Nixon, videro il primo dibattito televisivo tra candidati alla presidenza. Secondo un sondaggio realizzato all’epoca, la maggior parte di coloro che avevano guardato la televisione avevano trovato il candidato democratico, elegante e telegenico, più convincente di Nixon, visibilmente a disagio sotto i riflettori, mentre tra quelli che avevano seguito il dibattito alla radio le opinioni erano più favorevoli a Nixon, di cui non avevano potuto vedere l’ombra di barba sulle gote e il sudore che gli imperlava la fronte. Non solo la tv fa il suo pieno debutto nell’agone politico con le elezioni vinte da Kennedy, ma è in quel contesto che Robert Drew e Richard Leacock girano uno dei capolavori della storia del cinema documentario, Primary (1960), dove la troupe segue Kennedy e il suo rivale Hubert Humphrey impegnati nelle primarie nello stato del Wisconsin. E una volta che JFK si insedia alla Casa Bianca, la troupe di Robert Drew torna a filmare Kennedy, realizzando Crisis: Behind a Presidential Commitment (1963), sulla battaglia dell’amministrazione per desegregare le università del sud, mentre la Warner Brothers distribuisce PT 109 – Posto di combattimento (1963), un war movie sulle eroiche imprese del presidente durante la seconda guerra mondiale. PT 109, diretto dall’oscuro Leslie H. Martinson, non è certo un capolavoro, e l’attore che interpreta il giovane Kennedy, Cliff Roberts, non ha molto del suo fascino (sembra che Kennedy avrebbe preferito Cary Grant, come dargli torto?). Però, il semplice fatto che PT 109 sia stato realizzato la dice lunga sulla natura “cinematografica” della presidenza Kennedy. Di solito è nei regimi dittatoriali che si girano film agiografici sul “grande timoniere” (il cinema sovietico di epoca staliniana conta diverse pellicole in cui Stalin compare come personaggio).

Da una prospettiva differente

Questo legame preferenziale tra la presidenza Kennedy e il cinema è proseguito anche dopo l’attentato di Dallas. Anzi, proprio la tragicità di quella morte, e il mistero che ancora oggi la circonda, hanno enfatizzato le potenzialità della figura di Kennedy sul piano spettacolare. Da Azione esecutiva (1973), il primo film sul “complotto”, sino a JFK – Un caso ancora aperto (1991) e Thirteen Days (2000), i film sulla  presidenza Kennedy e sulla sua fine, nonché sul fratello Bob (Bobby, 2006), non hanno smesso di uscire. Ora si inserisce in questo filone un regista cileno, Pablo Larraín, che sceglie di raccontare quei fatti dalla prospettiva della first lady. Il film si concentra sui giorni della vita di Jacqueline Kennedy che l’hanno fatta entrare nella storia del XX secolo. O per meglio dire, il film, costruito su una serie di flashback incorniciati da un’intervista che la vedova rilascia dopo il funerale, da un lato racconta “il giorno” della vita di Jackie Kennedy, quello dell’attentato di Dallas: l’arrivo all’aeroporto; la decapottabile con la coppia presidenziale che avanza tra le due ali di folla; il primo sparo; Jackie che letteralmente cerca di tenere insieme il cranio di Kennedy dopo che il secondo proiettile l’ha preso alla testa; l’inutile corsa verso l’ospedale; Lyndon Johnson che presta giuramento sull’Air Force One, accanto a una Jackie sotto shock che ancora indossa il tailleur di Chanel rosa sporco del sangue del marito, e che rifiuta di togliersi prima dell’atterraggio, come gesto di sfida a tutti coloro (la destra razzista) che nei mesi precedenti si erano augurati in modo esplicito la morte del presidente. In questa parte del film, inevitabilmente, Larraín deve confrontarsi con i documenti fotografici e audiovisivi dell’epoca, dal leggendario film amatoriale di Abraham Zapruder, che immortalò per puro caso l’assassinio, alla fotografia del giuramento di Johnson scattata da un funzionario della Casa Bianca.

Pablo Larrain - Jackie

Larraín sceglie la strada della ricostruzione fedele: la composizione del quadro, il taglio dell’inquadratura, i costumi, la postura degli attori, tutto punta a darci l’illusione di rivedere immagini che abbiamo già veduto in tv o sulle pagine di una rivista. E in effetti alcune di quelle immagini – ad esempio i campi lunghi del corteo funebre – sono materiali di repertorio. Ma oltre a mostrarci “ciò che avevamo già visto”, Jackie racconta anche i giorni successivi alla morte di JFK, durante i quali, lontano dagli obiettivi, si svolge la complessa gestione del “dopo”, con l’apparentemente ingenua Jackie che riesce a trasformare il funerale in una grande rito pubblico, una cerimonia civile e religiosa che – attraverso la televisione – coinvolge l’intera comunità nazionale e consacra il mito della presidenza Kennedy. Jackie, con l’aiuto del cognato Bobby e dalla fedele Nancy Tuckerman, la sua assistente personale, si impone sullo staff di Lyndon Johnson, che vorrebbe una cerimonia più sobria di quella immaginata dalla vedova, formalmente per ragioni di sicurezza, ma forse anche per non mettere in ombra il nuovo capo.

Abbiamo la televisione, ora

Da questo punto di vista, il “cattivo” del film è Jack Valenti, uomo di Johnson e futuro mastino delle relazioni pubbliche dell’industria cinematografica americana: un gioco sottilmente autoironico da parte di un regista latinoamericano che si trova a lavorare per Hollywood, con tutti i vantaggi che questo comporta, a partire dalla possibilità di raccontare una storia così profondamente americana, e di avvalersi di un’attrice delle qualità di Natalie Portman. Nell’intervista che si dipana per tutto il corso del film, intervallata ai flashback, Jackie non solo dimostra una forte consapevolezza dell’importanza dei riti pubblici per costruire la mitologia nazionale, ma si rivela anche consapevole di come la televisione – così importante per la vittoria di Kennedy del 1960 – intervenga in quei processi. Nelle prime battute che si scambiano Jackie e il giornalista, i due discutono proprio della differenza tra “prima”, quando la storia veniva tramandata unicamente dalla parola scritta, e “adesso”. “Abbiamo la televisione, ora, così la gente può vedere con i propri occhi”, dice Jackie. Ed è per questo che lei insiste per un corteo funebre – concepito sul modello di quello dell’altro grande presidente martire della storia americana, Abraham Lincoln – non solo sfarzoso, pieno di soldati e dignitari stranieri, ma soprattutto un corteo a piedi, che marcia lungo otto isolati (gli isolati enormi delle grandi città americane), nonostante la possibilità di un nuovo attentato, mentre Valenti vorrebbe un corteo in automobile.

Pablo Larrain - Jackie

Ma Jackie – come dice all’inizio dell’intervista – “ha letto molto” e capisce che per creare il mito sono necessari tempi e rituali antichi, e costringe tutti quanti a camminare dietro di lei. È la politica come messa in scena. Qui sta il centro del film di Larraín, nella dialettica tra la “realtà” dell’uomo Kennedy e della sua presidenza da una parte, e l’immagine che ne resta nella memoria collettiva dall’altra. Nelle segrete stanze del potere, Jackie e Bobby non si nascondono nulla. Lei parla esplicitamente dei continui tradimenti del marito, mentre Bobby enumera i fallimenti politici suoi e del fratello. Al contempo, però, entrambi lavorano perché lo “spettacolo” del funerale sia solenne e impeccabile, e in tal modo trasmetta, ai contemporanei e alle generazioni future, il mito di Camelot, un mito così forte che non vi si può sottrarre neppure lo stesso Larraín, che chiude il suo film con un’immagine seducente della coppia presidenziale: Jackie e John che ballano durante un ricevimento alla Casa Bianca, due innamorati belli ed eleganti.

Ma su queste immagini, a rimarcare l’intima contraddittorietà dell’eredità di JFK, e forse di ogni ricostruzione del passato, il regista monta un brano della partitura di Camelot, il musical di Broadway che a un certo punto Jackie ascolta, mentre vaga sola, con un bicchiere di vodka in mano, tra i saloni deserti della Casa Bianca. È lei stessa, nel corso dell’intervista, a stupirsi del fatto che un uomo di vasta cultura come Kennedy, che citava sempre i classici greci e latini, venga ricordato attraverso una formula ricavata da un musical di Broadway. Ma è proprio attraverso la dialettica tra istanze contrapposte – eleganza e kitsch, cultura alta e bassa, ricostruzione e materiali d’archivio – che Larraín fa emergere la complessità della storia di John Kennedy e della storia tout court.

g.alonge@unito.to

G Alonge insegna storia del cinema all’Università di Torino