Spike Lee – BlaKkKlansman


Scegliersi la parte dietro la linea del colore

recensione di Andrea Mattacheo

dal numero di novembre 2018

Spike Lee
BLAKKKLANSMAN
con John David Washington, Adam Driver, Laura Harrier, Topher Grace, Harry Belafonte
Usa 2018

«Andavo in cerca di me stesso e facevo a tutti, tranne che a me stesso, domande cui io, e soltanto io, potevo rispondere. Mi ci volle molto tempo e le mie aspirazioni dovettero subire penosi alti e bassi prima che arrivassi a rendermi conto di ciò che tutti gli altri sembrano sapere fin dalla nascita: che io non sono altri che me stesso. Ma prima dovetti scoprire che sono un uomo invisibile» (Ralph Ellison, Uomo invisibile).
In uno dei saggi raccolti in They Can’t Kill Us Until They Kill Us, il giovane poeta afroamericano Hanif Abdurraqib racconta di quando, traferitosi per frequentare l’università, incontra per la prima volta uno dei suoi futuri vicini di casa. Cresciuto a Columbus, Ohio, in un quartiere in bilico sul confine tra piccolissima borghesia e proletariato, Hanif non è certo inconsapevole del colore della propria pelle, complice soprattutto il controllo subito da una volante della polizia a diciassette anni. Eppure fino ad allora ha vissuto una vita molto simile a quelle dei ragazzi bianchi che frequentava nei sobborghi, e con i quali condivideva una passione adolescenziale e viscerale, piuttosto “pallida”, per la musica punk rock emo. Quando però, carico di borse per il trasloco, vede quel vicino squadrarlo e interrogarlo come si trattasse di un ladro, capisce forse per la prima volta che il suo destino sarà quello di essere nero ovunque. Capisce quanto era stato ingenuo da parte sua credere di potersi sentire al sicuro indossando i panni del brillante studente in un quartiere residenziale cosmopolita di una città universitaria progressista.

L’ingenuità di Ron

L’ingenuità di Abdurraqib di fronte alla porta di quella casa è la stessa di Ron Stallworth, il protagonista di BlacKkKlansman, quando si presenta al commissariato di Colorado Springs, dove in seguito inizierà a lavorare diventando così l’unico poliziotto nero in servizio nel distretto. Di lui, come di tutti i personaggi del film, non sappiamo molto, sono funzioni all’interno di un discorso che, malgrado prenda una forma narrativa, divertita e godibile, Spike Lee incornicia in maniera manifestamente saggistica. La storia vera che ha avuto luogo alla fine degli anni settanta, e che ci sarà raccontata, è chiaro sin da subito ci parli soprattutto di quanto sta accadendo oggi. Quel poco che sappiamo di Ron lo possiamo quindi intuire da un lato dal suo aspetto: non è per niente ignaro della propria identità nera. E a dircelo è il modo in cui ci viene presentato, mentre si sistema con una certa vanità i capelli orgogliosamente afro, prima di entrare al colloquio con i superiori che lo assumeranno. Qualcosa in più su di lui possiamo poi dedurlo dal solo dettaglio del suo passato che ci sia concesso conoscere: Stallworth confessa, proprio in quel colloquio, di essere cresciuto in un contesto patriotico, con un padre militare, di aver studiato all’università e di aver da sempre voluto servire lo stato facendo il poliziotto. È un ragazzo che, pur consapevole di essere sospeso sulla linea del colore, ha seguito il percorso di qualsiasi giovane americano per bene, e non pare in nessun modo dubitare che essere al servizio dello stato non coincida con il servire la “propria gente”.

Si porta dunque dietro quell’ingenuità della quale ha scritto meravigliosamente James Baldwin in Many Thousands Gone; quella dei neri d’America convinti di potersi integrare attraverso un esercizio di buona volontà. L’ingenuità di chi per sopravvivere in un’esistenza forse nemmeno troppo dignitosa, fatta di passioni tristi e paura, ha rinunciato senza rendersene conto alla propria personalità e si è ridotto all’anonimato. E sono proprio l’anonimato e l’impotenza le due condizioni che caratterizzano la vita di Ron appena entrato al commissariato. È stato preso per ragioni di “marketing razziale” che nulla hanno a che fare con i suoi sforzi e la sua convinzione, ed è stato piazzato dietro un bancone a consegnare fascicoli. Non solo, come ogni bravo ragazzo deve anche abbozzare davanti al razzismo, nemmeno tanto sottile, di molti agenti che chiamano rospi gli indiziati neri di cui richiedono informazioni. L’ingenuità di Ron (che pone con pacatezza le sue rimostranze ai colleghi razzisti, scarica la rabbia facendo mosse di karate nel vuoto e fatica a smettere di credere che stare dalla parte della legge sia il modo migliore per porre rimedio alle ingiustizie) sembra ricadere sull’intero film, che apparentemente potrebbe essere scambiato per un oggetto un po’ naïf ma in realtà è un triste apologo sulla fine dell’innocenza postrazziale maturata negli anni di Obama.

Un destino tragico

Stallworth infatti trova la forza di non essere più uno strumento, e fare qualcosa che ritiene davvero giusto, soltanto dopo avere ascoltato le parole di Kwame Ture (Stokely Carmichael, primo ministro onorario delle Black Panthers); la loro potenza carnale restituisce senso e valore alla sua corporeità nera, che da quel momento non può più nascondere a sé stesso e sarà il centro, con tutto il peso che comporta, della folle impresa nella quale si lancia: tentare di infiltrarsi nel Ku Klux Klan. Perché per quanto possa essere bravo a sedurre telefonicamente i leader del “white power”, per quanto li possa mettere alla berlina rivelandone l’idiozia, non avrà comunque mai modo di sfidarli faccia a faccia; anche sapendo fingersi in tutto e per tutto come loro, a tradirlo resterà sempre il colore della pelle. Deve dunque delegare l’azione a un alter-ego bianco, restando in disparte, e quando ha l’occasione di ritrovarsi nella stanza dove sono riuniti i membri del Klan è costretto a occuparsi della sicurezza di David Duke, il loro capo nazionale, di cui può continuare a prendersi gioco e nulla più. Diventa via via sempre più consapevole – anche grazie alla relazione sentimentale con Patrice (leader dell’alleanza degli studenti neri) – di una corporeità che all’interno delle maglie del potere istituzionale non potrà mai vivere in modo libero e finirà con l’imprigionarlo.

Spike Lee - Blakkklansman

Una prigione che si fa più stretta nel feroce finale, quando tutto precipita all’improvviso e la cifra farsesca da commedia degli equivoci vira su tinte più cupe. Così, mentre sta cercando di fermare quella che malgrado l’aspetto da innocua casalinga è una terrorista in fuga, prima Ron viene scambiato per un molestatore da una pattuglia di passaggio e viene pestato. Poi riceve l’ordine di insabbiare e chiudere l’indagine, dalla quale sono rimasti fuori quelli che avevano, e avrebbero continuato ad avere, influenza su Washington; di lì a pochi anni si aprirà l’era Reagan, una delle presidenze più legate agli ambienti del suprematismo bianco e una delle più ferocemente anti-neri del Novecento. E alla fine non gli resta che farsi l’ennesima risata alle spalle di David Duke, che suona però decisamente sinistra alla luce dell’ultima sequenza (di fiction) in cui scorgiamo il rogo di una croce circondato da spettri bianchi. Un rogo i cui bagliori non hanno mai smesso di riverberare in America; dalle incarcerazioni di massa alle rivolte di Los Angeles, dall’omicidio di Eric Garner, e delle centinaia di altri come lui massacrati dalla polizia, alle parole di un presidente che dice di aver visto tante brave persone tra i partecipanti a un corteo neonazista. Per tornare a Baldwin: i neri sono le ombre che attraversano la storia degli Usa, sono la parte oscura dell’inconscio statunitense, e dal loro destino dipende quello del paese intero. Un destino che, pare dirci Spike Lee – chiudendo il film con una bandiera prosciugata del colore e capovolta –, non è mai sembrato poter essere tanto tragico.

andrea_mat@libero.it

A Mattacheo è dottorando presso il dipartimento di studi umanistici dell’Università di Torino ed editor dall’editore Einaudi