Todd Haynes – La stanza delle meraviglie

Avventura sensoriale

recensione di Francesco Pettinari

Todd Haynes
LA STANZA DELLE MERAVIGLIE
con Julianne Moore, Oakes Fegley, Millicent Simmonds, Jaden Michael, Cory Michael Smith
Usa 2017

Todd Haynes - La stanza delle meraviglieRaccontare una storia – anzi due storie – di sordità attraverso il linguaggio delle immagini: un’esperienza intrigante già sul piano teorico quella offerta dal nuovo film di Todd Haynes, La stanza delle meraviglie (titolo originale Wonderstruck) che arriva nelle sale italiane a fine stagione, probabilmente penalizzato dal fatto che non ha avuto, a cominciare dagli Stai Uniti, quel successo di pubblico che ci si poteva aspettare, e nemmeno è stato protagonista della stagione dei premi, a cominciare dalla presentazione, in prima mondiale, al festival di Cannes edizione 2017, dove era in concorso e non è entrato nel palmarès. C’è di che rammaricarsi, perché si tratta di un’opera notevole, in grado di offrire allo spettatore un viaggio, una vera e propria avventura sensoriale, che mette in primo piano, in relazione alla tematica della sordità, la rilevanza del cinema come linguaggio, come sistema di segni, scomponendolo nei tre canali che lo costituiscono: quello visivo, quello sonoro e quello grafico.
Il film è tratto dal romanzo Wonderstruck, pubblicato in Italia da Mondadori nel 2012, scritto da Brian Selznick, l’autore di Hugo Cabret portato al cinema da Martin Scorsese nel 2011, e autore altresì della sceneggiatura del film di Haynes. Già il testo presenta, sul versante stilistico, una peculiarità che lo rende molto più di un convenzionale romanzo illustrato: sono presenti due mezzi espressivi distinti per ciascuna delle vicende. Una storia è affidata alla scrittura. Minnesota, 1977: Ben, un ragazzino di dodici anni (Oakes Fegley), ha perso la madre in un incidente, non ha mai conosciuto il padre, diventa non udente in seguito alla scarica elettrica provocata da un fulmine; trovato in un segnalibro un indizio sul padre, decide di partire per New York per andare a cercarlo. La seconda storia è tutta per immagini. New Jersey, 1927: Rose, anche lei dodicenne (Millicent Simmonds, strepitosa, per la prima volta sullo schermo e non udente anche nella realtà), è sorda dalla nascita; vive con il padre severo e passa il tempo a ritagliare fotografie e articoli della madre, famosa attrice di cinema e di teatro, con lei tanto anaffettiva, fino a che decide di andare a trovarla a New York, dove vive anche il fratello. La Grande Mela è quindi il punto prospettico che permetterà il convergere di due storie separate dalla distanza temporale.

Una riflessione sulla storia del cinema

È la prima volta che Haynes firma la regia di una storia per ragazzi, ma per chi conosce il suo cinema è facile comprendere come abbia potuto trovare, nello script di Selznick, una serie di elementi a lui congegnali, che lo hanno reso uno dei più talentuosi esponenti del cinema indipendente americano. Di Lontano dal paradiso e di Carol (di cui L’Indice ha già parlato) si ritrova, nella Stanza delle meraviglie, la stessa maniacale ossessione, il medesimo rigore filologico per la ricostruzione delle ambientazioni, in termini di contesto scenografico, di costumi, di gestualità. Inoltre, i due piani temporali permettono al regista un lavoro di trasposizione che è anche una riflessione sulla storia del cinema e sulla rappresentazione dell’immagine: la vicenda di Rose è un film muto, in bianco e nero, accompagnato però da un tappeto sonoro, orchestrato da Carter Burwell, che evidenzia e traduce in emozioni la mancanza del parlato; per contro, la parte di Ben è visivamente un omaggio a tutto il cinema americano degli anni settanta. Come sempre, è tutto il lavoro di squadra a dimostrarsi eccellente, a cominciare dalla fotografia di Ed Lachman, per arrivare ai costumi di Sandy Powell, e al doppio ruolo dell’attrice-feticcio Julianne Moore (la madre di Rose e Rose da adulta).

Todd Haynes - La stanza delle meraviglie

Julianne Moore

Sul versante del montaggio, il film presenta un carattere che lo rende quasi un’opera sperimentale: lo spettatore cinefilo non può che vivere un gran piacere nel cogliere la ricchezza di concordanze emotive e visive che accompagnano l’alternarsi continuo delle vicende di Ben e di Rose – come se la sala cinematografica stessa diventasse l’equivalente di una Wunderkammer. D’altra parte, la pluralità è un altro segno del cinema di Haynes: dalle tre storie contenute in Poison, fino ai sette distinti momenti della vita di Bob Dylan in Io non sono qui. Grande rilevanza assume l’attenzione al tatto, al costruire con le mani – che siano le barchette di carta o i grattacieli costruiti con le pagine del libro sul linguaggio dei segni; o lo sfiorare un meteorite all’interno del museo di scienze naturali e depositarvi poi un messaggio con la domanda fondamentale che attraversa tutto il film: dov’è il mio posto?
Un film girato in pellicola, con formato panoramico: un’idea di cinema, quella di Haynes, che celebra l’abilità artigianale, e che può fare a meno di budget astronomici, della tecnologia digitale, degli effetti speciali, del 3D – in questo senso, è del tutto inappropriato il paragone con il film di Scorsese o con quelli di Spielberg.
Il finale annulla la distanza temporale, regalando un forte momento di commozione: l’agnizione tra i due protagonisti all’interno di un diorama, un modello in scala di New York, che simboleggia l’architettura emotiva del passato che li unisce e ne custodisce i segreti.

fravaz_tin_it@hotmail.com

F Pettinari è critico cinematografico