Francesco Maria Colombo – Zohar

di Vladimiro Bottone

Francesco Maria Colombo
Zohar
Viaggio fotografico nei luoghi della cultura ebraica italiana
pp. 167, € 45
Skira Milano 2023

In uno scritto pubblicato sull’Espresso nel 1979, Bruno Zevi sosteneva che “il tempio ebraico non è una chiesa ma una scuola, un centro comunitario dove si insegna la storia biblica”. Con minore inclinazione laicista, potremmo definire la sinagoga come un luogo di culto e di preghiera, di studio e di ritrovo, dove l’identità ebraica ha avuto modo di venire sacralizzata, preservata e trasmessa. Come ogni nucleo identitario, anche la sinagoga stabilisce un inevitabile confine fra gli altri e un noialtri. Come ogni tempio, la sinagoga instaura altresì una perentoria separazione simbolica fra lo spazio sacro e quello profano. Per comporre questo suo Zohar, il goy Francesco Maria Colombo ha dovuto varcare quella duplice soglia, più un terzo sbarramento a lui peculiare. Colombo è infatti, per daimon personale, non solo musicista ma anche recensore capace, come forse nessuno in Italia, di parafrasare in una raffinata enunciazione critica l’universo per eccellenza asemantico della musica. Salta perciò subito agli occhi come, con questo suo pellegrinaggio fotografico durato sei anni fra sinagoghe e cimiteri ebraici, Colombo abbia scelto di inoltrarsi in una dimensione teoricamente aliena, per un virtuoso della parola quale lui è. In Zohar, difatti, l’obiettivo di Colombo inquadra e interpreta sia il tempio, sia il cimitero ebraico come concentrazioni assolute di silenzio, un silenzio sprigionato dal vuoto. Nel suo reportage fotografico, che spazia da un capo all’altro della dispersione ebraica nella Penisola, la rarefazione delle presenze umane si spinge addirittura al grado zero della loro totale sparizione. La sacralità dei luoghi si direbbe assolutizzata proprio dal loro apparire spogli di fedeli e di celebrante, tanto quanto nudi di figurazioni. Penso alla monumentalità delle sinagoghe di Trieste o di Roma; alla Schola di Gorizia, scrutata insinuando l’obiettivo fra le grate; alla solenne spazialità, quasi basilicale, del tempio di Vercelli. Tappe di una ben più lunga galleria di immagini dove la presenza umana risulta tutt’al più evocata, in absentia, da oggetti che ne alludono al passaggio: un bastone dimenticato; delle tuniche ripiegate con scrupolo religioso; un riflesso che scorre sulla superficie dei banchi senza occupanti, sulla  creaturale materialità del legno abbandonato a se stesso. A maggior ragione questa incorporeità delle immagini si afferma nella visitazione delle sepolture ebraiche di Pisa, Moncalvo, Venezia, dove l’obiettivo di Colombo si avventura con esiti non meno emozionanti. E dove l’entità umana finisce interamente simboleggiata e assorbita dalle steli funerarie talvolta sbilenche, assediate dalle erbacce, insidiate dallo smottare del terreno e del Tempo.  

E’ quasi inevitabile porsi allora una domanda, la domanda: perché questa decisione, così drastica, di tagliare via i corpi dal proprio campo di osservazione? Io azzardo che una simile, radicale scelta estetica nasca proprio dalla estrema consapevolezza di Colombo in quanto musicologo-letterato, degno erede di una genealogia che va da Bruno Barilli a Paolo Isotta. Proprio perché magnifico prosatore, Colombo conosce dall’interno le infinite possibilità espressive della parola scritta. Allo stesso modo e per lo stesso motivo, Colombo ha dovuto anche prendere atto dei limiti intrinseci alla parola stessa. Primo fra tutti, l’impossibilità a descrivere l’Assenza. L’Assenza pensabile solo come silenzio e vuoto, dunque come indicibile per definizione. Da ciò l’obbligo per Colombo a spogliarsi di quella scrittura che non fa presa sull’Assenza, limitandosi a vergare a malapena una pagina in un volume che ne conta oltre centosessanta. Laddove la parola si vede costretta a tacere, impossibilitata a dire, non rimaneva dunque a Colombo che rappresentare l’alterità assoluta mediante il ricorso alla fotografia, capace di scrivere con la luce e il silenzio, con l’ombra e il silenzio. La sfida appare vinta in ogni singolo scatto, tant’è che le immagini sembrano presentarsi come epifanie dotate di un’esistenza propria, auto-generata nel momento stesso in cui sfogliamo questo Zohar, ovvero “libro dello splendore”. Penso, scegliendo a titolo puramente esemplificativo, al taglio di luce che spiove nell’ombra in cui resta immersa la sinagoga di Ferrara, con una per me irresistibile associazione all’universo memoriale di Giorgio Bassani. O al lucore che sbalza in rilievo, da una tenebra religiosissima, gli arredi sacri e gli umili banchi nel tempio di Casale Monferrato. Immagini come queste e altre ancora fissano una cattura dell’Assenza, dell’alterità assoluta che essa implica. Eppure, in un prodigio di inversione, proprio questo immortalare l’Assenza nei luoghi capitali dell’ebraismo sfocia nel far aleggiare anche la mortalità, la finitezza e la fine, la tragedia e l’ostinata, fantasmatica presenza degli assenti. Ovvero di coloro che non sono, ma furono tra noi; di coloro che avrebbero desiderato esserci, ma furono condannati a non esserlo più. Sono costoro il presupposto silente da cui sorge e a cui ritorna, spegnendosi, la musica per immagini di Zohar. Non risulta affatto casuale, perciò, che il volume esordisca con l’apparizione della risiera-crematorio di San Sabba: una scabra facciata di mattoni rugginosi, sotto un cielo che effonde lo splendore e l’indifferenza delle pietre dure. Per poi venire sigillato in chiusura, questo Zohar, dal Memoriale della Shoah a Milano: un binario, delle mura scrostate, un atroce cartello mezzo corroso al fondo: “vietato trasportare persone”. Qui più che mai, Colombo lascia che il silenzio e la scomparsa pervadano le sue foto, con una pressione ultrasonica. Un silenzio che tuttavia non smette di parlare, riaffermando e rendendo presente una storia di esilio, patimento, tragedia, luce, ombra che, nella sua unicità, appartiene a ognuno di noialtri.