Sebastiao Salgado – Altre Americhe

Senza l’istantanea sarebbero andati perduti

recensione di Andrea Casalegno

dal numero di ottobre 2015

Sebastiao Salgado
ALTRE AMERICHE
progetto e realizzazione di Lélia Wanick Salgado
pp. 128, € 35
Contrasto, Roma 2015

altre_americhe_gSono quarantadue grandi fotografie in bianco e nero a doppia pagina e sei a pagina singola, senza didascalie a parte l’indicazione di uno stato latinoamericano e dell’anno dello scatto. Il progetto, iniziato nel 1977, produce nel 1986, a Parigi, il primo libro fotografico di Sebastiao Salgado, impaginato da sua moglie Lélia Deluiz Wanick; ma soltanto quarantotto scatti vengono ammessi alla dignità della pubblicazione. “Le spese legate alla fotoincisione erano molto elevate” spiega oggi l’editore. E aggiunge: “Resto convinto che questa limitazione, obbligando a una selezione rigorosa delle immagini, abbia rafforzato il progetto”. Accompagnano le foto solo quattro paginette di Salgado, per metà dedicate a un personaggio che non compare mai, frate Damiao. L’edizione latinoamericana e quella statunitense, uscite lo stesso anno, contenevano anche un breve elogio dell’arte fotografica di Gonzalo Torrente Ballester la prima e un’introduzione esplicitamente politica di Alan Riding la seconda.
Le fotografie ritraggono, in interni ed esterni, indios di ogni età e identica miseria. Se non fossero indicate data e nazione, non potremmo sapere che sedici scatti sono brasiliani, dodici ecuadoregni, dieci messicani, sei boliviani, tre peruviani, uno guatemalteco, e che gli anni delle riprese vanno dal 1977 al 1984. Il taglio delle immagini (quasi sempre un particolare è isolato da una scena più ampia) e l’assenza di contestualizzazione annullano lo spazio e il tempo in queste “altre Americhe” apparentemente immutabili. Ogni quadro è ridotto così alla sua sostanza umana, estratta però dalla concretezza di un momento unico: una concretezza, per così dire, astratta, il cui significato spesso ci sfugge. O meglio: spesso siamo noi spettatori a dover completare l’immagine con il significato, a costo d’inventarlo.

Brasile, 1981 © Sebastião Salgado/Amazonas Image

Brasile, 1981 © Sebastião Salgado/Amazonas Image

Contrasto pubblica per la prima volta in Italia questo libro unico nel suo genere, enigmatico oggi come allora. Il suo editore francese, Claude Nori, l’ha ripubblicato l’anno scorso, “senza modifiche”, poiché “la sua forza estetica è intatta”. Per la nuova edizione Nori ha aggiunto due pagine di suo pugno, che spiegano la genesi dell’opera (con una bella foto di Salgado e di Lélia scattata durante un viaggio a Huelva) e mezza pagina di ricordi dello stesso Salgado. Contrasto ha incluso questi due testi nell’edizione italiana, insieme alle postfazioni di Torrente Ballester e Riding per le altre due edizioni del 1986.

Questi apparati arricchiscono il volume ma non lo rendono meno ermetico. Come guardare trent’anni dopo, trent’anni in cui l’autore è diventato un monumento, quest’opera prima? Salgado non sarà forse, come afferma Wikipedia, il massimo fotografo vivente, ma è di certo un caso unico. Nato in Brasile (Minas Gerais) l’8 febbraio 1944, studia economia e, dopo essersi sposato nel 1967, dal 1969 si perfeziona con un dottorato a Parigi e, dal 1971, a Londra. Nel 1973 però, tornato a Parigi, decide di diventare fotografo: fotografo militante. I suoi temi, si tratti dei contadini latinoamericani o degli operai europei, del Sahel o degli immigrati delle banlieues, sono il lavoro, la povertà, l’emarginazione, la resistenza alla colonizzazione culturale, “la mano dell’uomo”. Il successo non è immediato, ma quando arriva è travolgente. Nel 1979 entra alla Magnum, nel 1986 pubblica “Autres Amériques”, che vince l’importante Prix du Premier livre Photo. Da allora i premi e i riconoscimenti non si contano; il suo terreno d’indagine diventa il mondo intero, fino al ciclo Genesis e al film Il sale della terra.
Dobbiamo considerare l’opera prima del 1986 un capolavoro giovanile, ammesso che si possa parlare di gioventù per la ricerca di un fotografo più che quarantenne, o un lavoro della piena maturità? A decifrarne l’essenza ci aiutano poco i testi d’introduzione e accompagnamento. Secondo Nori “la composizione delle immagini, la forza delle inquadrature inattese, la complicità che esisteva tra il fotografo e i soggetti” ci permettono di “catturare l’anima degli esseri umani, includendoli al tempo stesso in un più vasto affresco universale”. Non sono del tutto sicuro di capire che cosa vogliano dire queste parole. Torrente Ballester si colloca decisamente sul piano dell’estetica, rivendicando l’originalità della fotografia rispetto alla pittura: la “rapidità” dell’immagine fotografica consente di catturare “momenti che erano diversi un attimo prima e che lo saranno quello seguente… momenti che senza l’istantanea sarebbero andati perduti”. Vero. Molte di queste immagini che insistono a più riprese sull’irrevocabilità della morte (quanti funerali, cimiteri, immagini sacre, bare, sepolture e persino ossa) però sembrano in posa. Alan Riding la butta in politica; insiste sulla miseria, la sofferenza, la dignità degli indios, sulle “voci che non si aspettano di essere ascoltate”, sulle “nascite non registrate” e le “morti che passano inosservate”, sui “volti che parlano attraverso gli occhi”. Giusto. Spesso però vediamo solo figure di spalle, particolari muti come tre paia di piedi, silhouette perdute nello squallore del ­paesaggio.

Messico, 1980 © Sebastião Salgado/Amazonas Image

Messico, 1980 © Sebastião Salgado/Amazonas Image

Con i suoi “ricordi” Salgado ci dà oggi la sua interpretazione autentica. Neppure questa però ci porta molto lontano. Nel 1977, dice, dopo anni di “periplo” in Europa e Africa “il mio unico desiderio era ritornare a casa mia, nell’amata America Latina”. Ma casa sua era ormai Parigi. Il raffinato gentiluomo ritratto da Claude Nori era così lontano da quell’America che è costretto ad ammettere di essersi “armato di un arsenale di chimere”. Mi tuffai, dice, “nel cuore di un universo irreale… per sette anni, o piuttosto sette secoli, perché tornavo indietro nel tempo, alla velocità lenta e densa che caratterizza il passaggio di tutte le ere in quella regione del mondo”.
Questa, allora, è forse la risposta. Il fotografo qui è un archeologo, i suoi scatti portano alla luce il passato/presente di questi indios che guidano i buoi persi nella nebbia, che si sposano con lo sguardo triste, che seppelliscono i bambini con gli occhi aperti perché non smarriscano il cammino dei cieli, che adagiano i corpi nella terra perché la povertà li costringe a utilizzare più volte le stesse bare, che non sorridono mai, che escono da una porta aperta sul nulla e intorno ha solo sterpaglie, ­nessuna parete.

casalegno.salvatorelli@gmail.com

A Casalegno è giornalista

Scritto e diretto da Juliano Ribeiro Salgado, figlio del grande fotografo, e da Wim Wenders, Il sale della terra (2014) ripercorre l’itinerario personale ed artistico di Sebastiao Salgado attraverso i suoi viaggi e i suoi scatti più celebri.