Alessandro Portelli – Badlands, Springsteen e l’America

Una storia in musica dell’America affaticata e delusa

recensione di Ferdinando Fasce

dal numero di dicembre 2015 

Alessandro Portelli
BADLANDS
Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni

pp 220, € 25
Donzelli, Roma 2015

“Sono prigioniero del rock and roll”, grida dal palco Bruce Springsteen, incapace di chiudere la solita, generosa maratona di suoni che alimenta da ore un suo concerto romano alle Capannelle, nel 2013. “Pure io”, annota Portelli, aggiungendo: “Sto in piedi da quattro ore, ho una certa età, mi fanno male le gambe, mi calpesto e mi sgomito nella ressa, il palco lo vedo a malapena e se quelli davanti a me non si scansano non vedo nemmeno il maxischermo; ma come faccio ad andarmene se questo” – cioè Springsteen – “non smette?”. Siamo a un terzo dell’atteso libro del noto studioso romano sul popolarissimo cantautore che già nel lettore il piacere del testo comincia a mescolarsi al rammarico perché fra centoventi pagine si chiude.

BadlandsBadlands mantiene tutte le attese che la decisione di questo “specialissimo fan” di dedicare un libro al cantautore aveva suscitato nel “popolo di Springsteen”, per usare il linguaggio della quarta di copertina. Come sempre con i libri di Portelli, anche questo è tanto ricco e profondo quanto capace di filare via di pagina in pagina come un romanzo. Basato su un corso tenuto a Princeton, il lavoro si compone di otto capitoli di “analisi tematica” dell’opera di Springsteen, che recano ciascuno, a mo’ di epilogo, una testimonianza diretta del rapporto fra l’autore e il rocker americano. È un rapporto colto in movimento, mentre si snoda fra echi della partecipazione di Portelli a concerti del boss, da una parte all’altra dell’oceano; viaggi nella “cintura della ruggine” del Middle West, così cara alla poetica di Springsteen; insights dettati al volo alla propria memoria da Portelli da un casello all’altro dell’autostrada del sole. Il senso di riflessione ad alta voce “sulla strada” di questi siparietti di fine capitolo rafforza il senso generale di movimento del libro nel suo insieme. Badlands infatti trascorre attraverso infiniti luoghi, simbolici e reali, si fa giustamente un baffo dei confini disciplinari e di genere narrativo, ci fa correre l’ebbrezza dell’“effetto Stendhal”, di fronte alla miriade di riferimenti letterari e musicali ai quali siamo esposti, ma sempre con un sorriso complice, che ci consente di superare lo stordimento. Come si addice al tentativo di restituire il profilo dell’autore indimenticato, giusto quarant’anni fa, di Born to Run.

Nel libro Portelli e Springsteen ingaggiano una ragnatela speculare di percorsi musicali e culturali. Partito in gioventù dal rock, Portelli lo ha lasciato per abbracciare il folk e la musica di protesta, segnando una prima tappa con un celebre lavoro su Woody Guthrie che conteneva anche importanti riflessioni su Dylan (La rivoluzione musicale di Woody Guthrie, De Donato, Bari, 1973). Grazie a Springsteen, scoperto tardi, a quarant’anni, è tornato a un rock robusto e maturo, chiudendo il cerchio, anzi trovando “tutti i cerchi del mio albero” perché “dentro l’accademico, il militante e il ricercatore stava sempre l’adolescente che aveva scoperto universi dentro tre minuti di disco”. Per converso, partito dal rock duro e puro di anni di ruvido apprendistato nelle periferie del New Jersey e del paese, Springsteen ha intrapreso un ineludibile viaggio a ritroso, dentro se stesso, le proprie radici di classe e quelle della popular music d’oltre Atlantico. È risalito a Guthrie, Hank Williams e al blues, acquisendo una consapevolezza storica della condizione degli strati subalterni del suo paese e una capacità sempre più distesa di raccontarla contaminando i moduli narrativi della canzone country e di protesta con la ritmica rock.

Una storia in musica dell’America affaticata e delusa delle cronache minori dell’ultimo trentennio si intreccia, in Springsteen, alle onde profonde della sua memoria; onde che gli fanno scovare tracce collettive, purtroppo dimenticate dai più, come quella del primo sciopero generale delle ferrovie, nel 1877, che compare in We Are Alive, dal recente Wrecking Ball (2012). Le coordinate entro le quali l’indagine di Portelli si dipana sono riassunte nelle parole chiave del sottotitolo: “lavoro” e “sogni”. Ovvero, la durezza, la precarietà, l’insoddisfazione, che si associano al primo, e il fascio di speranze, ambiguità, frustrazioni che sostanziano i secondi: nell’ostinato inseguimento di “another dance”, alla ricerca di spazio, “finchè siamo giovani”, nei difficili approdi oltre la barriera di genere, nello sforzo non meno ostinato di costruire un senso comunitario entro esistenze che nulla sembrano concedere. Con la sensazione, chiude Portelli, che “siamo vivi per correre (…) a studiare i cancelli della terra promessa, e per stare ‘shoulder to shoulder and heart to heart’ nella lotta per inventarla”.

nando.fasce@unige.it

F Fasce insegna storia contemporanea all’Università di Genova

L’America di Bruce Springsteen raccontata da un fan specialissimo, di Franco Fabbri.

Che Alessandro Portelli sia un fan specialissimo di Bruce Springsteen, come si legge nella quarta di copertina di Badlands (sottotitolo Springsteen e l’America: il lavoro e i sogni, pp. 220, € 25, Donzelli, Roma 2015) è indiscutibile. Americanista, studioso di storia orale (campo del quale giustamente rivendica di essere stato tra i fondatori), protagonista di una lunga stagione di ricerche e dibattiti sulla musica di tradizione orale e sul folk revival, Portelli ha competenze ben più vaste e finemente intrecciate non solo rispetto ai fan ordinari, ma anche rispetto a quei critici che di solito dedicano monografie alle star del rock… articolo riservato agli abbonati