Nanni Moretti – Santiago, Italia

L’Italia e i comunisti degli anni settanta non torneranno più

di Giame Alonge

Santiago, Italia, di Nanni Moretti
Italia-Francia-Cile, 2018

C’è qualcosa che ricorda Shoah (1985) di Claude Lanzmann nel nuovo documentario di Nanni Moretti, Santiago, Italia, dedicato al colpo di stato cileno dell’11 settembre 1973, e in particolare incentrato sulla vicenda di un gruppo di qualche centinaio di militanti di organizzazioni di sinistra, che sfuggirono alla repressione trovando protezione presso l’ambasciata italiana, e che le nostre autorità fecero uscire dal paese, accogliendole in Italia. Il nesso tra Shoah e Santiago, Italia non consiste tanto, o non solo, nella forma del documentario a più voci – dove il regista intervista persone che raccontano i fatti da prospettive diverse, complementari, e talvolta diametralmente opposte – nel caso del film di Moretti: alcuni dei fuggitivi, due ex-militari cileni, e i due diplomatici italiani che gestirono l’operazione di salvataggio. Come Lanzmann, in certi momenti anche Moretti incalza la persona che ha davanti all’obiettivo. Incalza i due ex-membri delle forze armate cilene, uno dei quali in carcere a causa delle sue attività di torturatore ai tempi di Pinochet. Questi non solo difendono il loro onore personale, ma più in generale difendono il golpe, che presentano come un atto teso a salvare la democrazia dal pericolo di una “dittatura rossa”. Moretti li incalza, e quando uno dei due protesta, affermando che si aspettava un’intervista imparziale, il regista replica: “Io non sono imparziale”. Però Moretti incalza anche le vittime, oltre che i carnefici. Le incalza con dolcezza, e tuttavia pone domande dolorose, in maniera non troppo lontana da Lanzmann nella scena di Shoah in cui forza uno degli ex-barbieri di Treblinka – prigionieri che dovevano rapare a zero gli altri prigionieri prima che venissero uccisi – a raccontare un episodio per lui particolarmente doloroso, che l’uomo preferirebbe tacere (la vicenda di un altro barbiere, il quale si trovò davanti la moglie e la sorella, dirette alle camere a gas). Rispetto a Santiago, Italia, in Shoah è tutto molto più drammatico, sia per la maggiore portata dei fatti in oggetto, sia perché Lanzmann esercita una vera violenza psicologica sull’intervistato, ma anche Moretti preme sul suo testimone, e gli domanda perché stia piangendo, quando l’ex-militante della sinistra cilena, ateo dichiarato, si commuove raccontando del vescovo di Santiago, che era stato uno dei pochi a provare ad aiutare i perseguitati, nei giorni della mattanza che seguì il colpe, quando si verificò un’ondata di arresti e uccisioni sommarie. Allo stesso modo, Moretti domanda a una donna – che peraltro risponde in modo piuttosto freddo, addirittura con una punta di ironia – in quale modo è stata torturata.

Santiago, Italia parte come un film sul Cile, ma progressivamente diventa un film sull’Italia, un’Italia profondamente diversa da quella di oggi. Alcuni degli intervistati paragonano in modo esplicito passato e presente. “Scappavano come scappano oggi dall’Africa”, dice uno dei due diplomatici. Diversi ex-profughi, pur dimostrandosi sempre molto riconoscenti verso il paese che ha dato loro asilo, ne sottolineano la recente involuzione sociale e politica, fino al punto che diventa loro difficile riconoscere la nazione che li aveva accolti con generosità. Ma anche quando il film non evoca in modo diretto il parallelo, è evidente che una storia di fuggitivi da una terra lontana cui vengono aperte le porte, e ai quali si permette di stabilirsi in Italia, non può non rimandare all’attualità, a un presente dove il nostro paese sta compiendo scelte diametralmente opposte.

Il parallelo è inevitabile, ma in realtà tiene solo in parte, perché si tratta di due situazioni tra loro molto differenti. I profughi cileni di cui racconta Moretti erano qualche centinaio, niente a che vedere con i numeri dell’ondata migratoria odierna in atto dall’Africa e dal Medio Oriente. Inoltre, i profughi del 1973 venivano da una nazione, che, per quanto molto distante sul piano geografico, era piuttosto affine all’Italia, per lingua e cultura. Integrare nella nostra società duecento cileni rappresenta una sfida assai meno ardua rispetto a integrare ventimila senegalesi. Nei racconti dei profughi, il grosso del lavoro di accoglienza venne svolto dal Pci e dalla galassia di organizzazioni e strutture che gli gravitavano attorno. Uno degli intervistati racconta di essere stato mandato in quella che chiama “Emilia rossa” proprio per ragioni politiche. Eppure, il rapporto del Pci con l’esperienza del governo di Unidad Popular fu caratterizzato da un doppio livello. Da un lato si accoglievano con grande calore i fuggitivi, ma dall’altro la riflessione berlingueriana sul Cile, espressa in tre articoli comparsi su “Rinascita” tra il settembre e l’ottobre del 1973, rappresentava una ricusazione a posteriori, dolorosa e necessaria, della linea adottata da Allende. Le Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile, dove Berlinguer comincia a sviluppare la strategia del compromesso storico, partono dalla constatazione che l’approccio “frontista” di Allende era fallito a causa della presenza – nella società cilena, come in quella italiana – di ceti e forze a vocazione reazionaria, indisponibili ad accettare un governo delle sinistre. Anche se eletto democraticamente, e impegnato in un’azione di tipo squisitamente riformista, e a mantenersi entro il contesto della contrapposizione est-ovest, dove ciascuna delle due superpotenze era pronta a intervenire militarmente nel caso che uno dei suoi alleati si fosse dimostrato troppo indipendente. Pensare di andare al potere, fosse anche con il 51 per cento dei voti (che Allende non aveva ottenuto), senza un accordo con il blocco sociale moderato, significava – teorizzava Berlinguer – porre le premesse di una guerra civile, o di un golpe. In una delle scene di repertorio che Moretti monta alternativamente alle interviste, si vede Allende che parla alla folla. Nel suo discorso, egli nega di voler interpretare il ruolo del martire, ma è esattamente quello il ruolo che la storia gli avrebbe attribuito, il martire di un governo popolare spazzato via da una parte della società cilena, che non voleva saperne di una svolta che a molti, dentro e fuori dal Cile, sembrava entusiasmante.

Eppure, per quanto il parallelo tra i profughi del 1973 e quelli del 2018 sia fragile, e per quanto il rapporto del Pci con l’esperienza di Unidad Popular fosse piuttosto complesso (a sua volta, il Partito comunista cileno, estraneo ai sogni guevaristi inseguiti da altri partiti fratelli dell’America latina, guardava al gradualismo del Pci come a un modello), la dialettica tra passato e presente resta comunque una prospettiva inevitabile, e produttiva, per guardare il film di Moretti. Santiago, Italia racconta di un’Italia dove non solo la sinistra, ma tutte le forze di quello che allora si chiamava l’arco costituzionale, si attivarono per aiutare i cileni in fuga, dal Pci sino alla Democrazia cristiana e al Partito repubblicano. Gli stessi funzionari dell’ambasciata italiana, i quali, senza direttive precise da Roma, decisero di accogliere e proteggere i fuggitivi, evidentemente non erano militanti di Lotta continua, bensì buoni borghesi, come qualunque giovane che intraprende la carriera diplomatica (all’epoca dei fatti avevano una trentina d’anni). Erano esponenti di una borghesia che aveva saldi valori democratici, erano persone che si rifiutavano di voltare la testa mentre si commettevano terrificanti violazioni dei diritti umani. Basti sentire il racconto di uno dei due funzionari circa la sua visita allo stadio dove gli uomini di Pinochet avevano radunato gli oppositori arrestati, con i prigionieri inginocchiati e i militari ubriachi del potere di vita e di morte che si trovavano ad amministrare. Quella che evoca l’intervistato è una scena agghiacciante, che sembra prelevata da Missing (1982) di Costa-Gavras, e che chiaramente rappresentò il momento in cui quel funzionario decise che era suo dovere morale fare qualcosa.

Santiago, Italia parla di un’Italia che non c’è più, un’Italia dove la coscienza antifascista era forte e diffusa nel corpo della società, ben oltre i confini della sinistra, un paese dove il Pci rappresentava “un paese dentro il paese”, che per quanto perennemente all’opposizione, sembrava comunque in grado di influire sui destini della nazione, tenendone a bada gli istinti peggiori. Quell’Italia perduta è rappresentata in modo paradigmatico dallo spezzone d’archivio dove si vede Gian Maria Volonté sul palco di un concerto, insieme agli Inti-Illimani, mentre parla della situazione cilena a un pubblico enorme e attentissimo. Santiago, Italia è di fatto il prequel del primo documentario di Nanni Moretti, La cosa (1990), dove il regista racconta la fine del partito che, nel film del 2018, viene mostrato all’apice della sua forza egemonica.

giaime.alonge@unito.it

G. Alonge insegna storia del cinema all’Università di Torino