Smiths – The Queen is Dead

The Queen is Dead degli Smiths compie 30 anni

 recensione di Pierpaolo Martino 

Nel 2002, il “New Musical Express” realizzò, per i propri cinquant’anni di attività, una classifica degli artisti che più avevano influenzato la sua storia. I parametri di valutazione – legati a una certa stance strumentale della testata – tenevano conto di vari fattori, tra cui il numero di apparizioni dell’artista in copertina, i riferimenti all’artista negli articoli e la sua presenza nei “poll”. Gli Smiths – formatisi a Manchester nel 1982 e scioltisi nel 1987 – guadagnarono il titolo di “greatest artist of all time“; si trattava di un risultato importante che (limiti dell’ “NME” a parte) premiava un gruppo capace di ironia ed intelligenza, la cui influenza può essere letta nella musica di gruppi quali Radiohead, Libertines e Arctic Monkeys.

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La solidarietà con i diseredati

Quella degli Smiths fu una pulsione costante a esprimere il proprio senso di solidarietà con dispossessed di ogni genere, articolando complessi manifesti politici (come Meat is Murder del 1985) e promuovendo – come antidoto alla pomposità dei New Romantics – un intelligente ritorno alla quotidianità. Caratteristica principale del gruppo era la straordinaria ordinariness ed incisività sia della proposta prettamente musicale (si trattava di una guitar-band con influenze che andavano dai Byrds, ai Kinks, al glam, al folk alla Bert Jansch) sia di tutto ciò che era  riconducibile alla dimensione dell’immagine. The Smiths è un nome comune, l’equivalente inglese di famiglia Rossi, una risposta ironica rispetto alla complessità dei nomi di tanti gruppi inglesi di quegli anni; l’aspetto era quello di tanta gente ordinaria: jeans, camicie, mocassini. Risultava, tuttavia, particolarmente interessante la scelta di alcuni segni utilizzati in maniera sistematica dal gruppo; innanzitutto, i fiori – che rappresentavano un tributo ad Oscar Wilde, nonché un antidoto al grigiore della Manchester degli anni 80– e gli occhiali da vista, utilizzati in concerto da chi non era né miope, né astigmatico, per creare un senso di solidarietà con chi veniva definito bespactacled.

smiths-queen-is-deadL’album più importante della carriera degli Smiths è The Queen is Dead, pubblicato nel giugno del 1986.
Si tratta di un lavoro caratterizzato da una forte coesione sia a livello formale che contenutistico, un caposaldo dell’intera cultura inglese contemporanea. Il titolo deriva da una sezione di un libro di Hubert Selby Jnr intitolato Last Exit to Brooklyn; tuttavia, nel contesto smithsiano il riferimento omosessuale (queen è, infatti, una forma gergale per male prostitute) è messo in secondo piano in nome dell’assalto swiftiano a sua Maestà la Regina. L’album, secondo Rogan, coglie la partnership creativa tra Morrissey e il chitarrista Johnny Marr nel suo momento di massimo splendore. Si tratta di un’opera che risuona di una molteplicità di toni diversi, che vanno dalla dimensione drammatica del concept album, alla leggerezza di tocco e all’ironia che nutre l’ultima traccia, ossia Some Girls are Bigger than Others costruita su una delle più belle linee melodiche e armoniche scritte da Marr.

Il brano di apertura dà il titolo all’album e si pone come un superbo collage d’immagini tese verso l’abbassamento delle icone reali. Qui l’io del testo si sente prigioniero dell’Inghilterra al pari di un cinghiale tra delle arcate, ma arches a causa dell’ambigua pronuncia può riferirsi anche ad archers alla ricerca di selvaggina o ancora agli archi dorati di Mc Donald’s che legavano l’Inghilterra della Thatcher agli Stati Uniti di Reagan; la parola di Morrissey è infatti sempre una parola ricca, ambigua, tesa verso quella che Barthes definiva “significanza”. Preziosa in questo senso l’immagine di sua “bassezza” con la testa bendata che si unisce, bachtinianamente, all’immagine di Carlo che indossa il velo nuziale della regina sulla prima pagina del “Daily Mail”, riferimento al chiassoso rapporto dei Reali con i media e alla subordinazione del principe alla regina. Con il quesito finale “Has the world changed or have I changed” Morrissey dice bene il senso di disagio suo e di parte della sua generazione rispetto a un presente thatcheriano soffocante.

Questo senso di inquietudine nutre anche There is a Light that Never Goes Out; una ballata profondamente lirica il cui tema principale  è quello del desiderio di darsi all’altro, in un rapporto in cui amore e morte possono anche coincidere. La voglia di andare in giro dice di un protagonista sofferente, che ha bisogno di vivere un rapporto amoroso disperato. Ciò che conta è non tornare a casa, in quanto il protagonista sa di non essere “welcome“; quella casa può, inoltre, diventare sinonimo di un’intera nazione. E’ in questo brano che termini come pleasure e privilege, enunciati in relazione alla morte, fanno del linguaggio di Morrissey un luogo affascinante ed incerto in cui la parola si fa drammatica. Del resto è fondamentale nella scrittura morrisseiana il rapporto con la letteratura (molti dei suoi testi riportano citazioni da Shakespeare, Woolf, Delaney e naturalmente Wilde) e con il cinema della new wave inglese degli anni 60.

Il senso che emerge da The Queen is Dead è dunque quello di uneasiness rispetto ad una realtà non familiare e che spinge al cammino, allo spostamento, alla ricerca, che qui si realizza proprio a partire dall’ascolto di una musica che più di ogni altra conserva un forte, necessario irrinunciabile sapore letterario.

pierpaolo.martino@uniba.it

P Martino insegna letteratura inglese all’Università di Bari