Lo schermo empatico: contaminazioni fisiologiche

Il coinvolgimento emozionale delle immagini in movimento

di Fiorenzo Conti

dal numero di aprile 2016

Vittorio Gallese e Michele Guerra
LO SCHERMO EMPATICO
Cinema e neuroscienze
pp 318, € 25
Cortina, Milano 2015

C’è una lunga e affascinante storia sulle relazioni tra fisiologia (e più tardi neurofisiologia e neuroscienze) e cinema. È una storia che risale al 1867, quando il fisiologo francese Étienne Jules Marey inizia a studiare la locomozione e inventa strumenti per visualizzare in dettaglio le sequenze motorie per definire le posizioni di una figura nello spazio in rapporto al tempo; questi strumenti si rivelano però insufficienti. S’avvicina così ai “giochi filosofici” (zootropi, fenachistoscopi, stroboscopi) con i quali si creava l’illusione del movimento; studia la fotografia, segue i lavori del fotografo Eadweard Muybridge e costruisce strumenti e dispositivi (vere scenografie). La rivoluzione si compie quando Marey realizza i primi cronofotografi a placca fissa, con i quali ottiene fino a cento immagini al secondo, seguiti (negli anni 1888-1893) da quelli a pellicola mobile (vere cineprese) e dal cronofotografo analizzatore-proiettore reversibile. Nella Station Physiologique, Marey crea i suoi celebri dispositivi: gli sfondi neri contro i quali uomini in tuta nera con linee bianche lungo gli arti e punti bianchi alle articolazioni effettuano movimenti, offrendo un modo nuovo di vedere e quantificare il movimento che ispirerà molti futuri studi di cinematica. Oggi, correttamente, molti attribuiscono a Marey un ruolo primario nell’invenzione della cinematografia, che era di fatto già stata inventata ben prima del 22 marzo 1895, data della prima proiezione dei Lumière.

Marey

Molto presto ci si comincia poi a chiedere quali siano gli effetti che il cinema ha sulla mente e sul corpo degli spettatori e nel 1907 Edmund Haines pubblica sulla rivista “Moving Picture World” un articolo fondato sull’idea che se si vuole veramente migliorare l’esperienza filmica, prima ancora che lavorare sulla narrazione, occorre capire a fondo “our physiological capacity for receiving impressions”. La storia diventa via via più complessa: ci si chiede poi quale sia la via per generare più stimoli ed emozioni nello spettatore e si giunge a un’interessante separazione tra il modo di filmare il corpo del cinema americano (più basato sull’espressione del viso) e di quello europeo (più incentrato sul movimento del corpo). Inoltre, si formulano ipotesi, molte delle quali resteranno senza verifica sperimentale o cadranno nel dimenticatoio.

lo-schermo-empatico-1676Una però va ricordata, per il suo sapore quasi profetico: nel 1924, Ėjzenštejn infatti scriveva: “siccome la percezione emozionale si ottiene tramite la riproduzione motoria dei movimenti dell’agente da parte del percipiente, soltanto un movimento che obbedisca agli stessi procedimenti secondo i quali si svolge normalmente in natura, può provocare una tale riproduzione”. Quest’affermazione richiama immediatamente la funzione del meccanismo a specchio (basato sui neuroni specchio) descritto dai fisiologi parmensi e adattato da molti, purtroppo in maniera a volte superficiale, ai campi più diversi. Il legame tra cinema e meccanismo a specchio chiude, per ora, la lunga storia delle relazioni tra cinema e fisiologia-neuroscienze e questo passaggio non poteva che derivare dalla fruttuosa relazione tra uno dei fisiologi che hanno scoperto i neuroni specchio (Vittorio Gallese) e uno storico del cinema (Michele Guerra): insieme hanno scritto un’opera che, per la bella scrittura e per l’avvincente sviluppo delle argomentazioni, riesce a tenere il lettore incollato (quasi “incarnato”) alle pagine fino a che non ha raggiunto la fine.

L’ipotesi di Gallese e Guerra è basata sull’applicazione all’interazione tra film e spettatore del concetto di “simulazione incarnata”, ovvero della possibilità di stabilire, tramite il meccanismo “a specchio” relazioni con le azioni, le sensazioni e le emozioni di altri. Applicato al mistero del cinema, questo significa che, al di là dell’interpretazione logica del contenuto e delle sue implicazioni, c’è qualcos’altro che ci lega al “grande schermo”. Questo qualcos’altro, semplificando non poco, è che sul piano sensoriale, motorio e, soprattutto, emozionale quando guardiamo un film noi comprendiamo e sentiamo nella nostra carne ciò che vediamo e ascoltiamo. E questo è legato appunto al fatto che il cervello non solo comprende le azioni, le sensazioni e le emozioni degli attori, ma le vive come se occorressero al corpo al quale appartiene. L’ipotesi viene spiegata senza troppi tecnicismi, ma con ampia dovizia di ragionamenti e riferimenti a film classici e alla letteratura neuroscientifica ed è suffragata dai risultati dei primi specifici studi sperimentali. Nel capitolo finale, Gallese e Guerra si avventurano nello stimolante tentativo di sottoporre la loro ipotesi ai cambiamenti dei supporti che ci permettono di vedere un film (dal grande schermo al “piccolo schermo”, cioè allo schermo di smartphone o iPod) e, con grande sollievo dei cinefili, propongono che i meccanismi che valgono per il grande schermo valgono, con i dovuti aggiustamenti, anche per il piccolo schermo, suggerendo che il mistero del cinema molto probabilmente rimarrà immutato ancora per molto. Un tema affascinante trattato da due autorità nei rispettivi campi che non mancherà di stimolare, e far ulteriormente progredire, l’incredibile storia dei rapporti tra cinema e funzioni cerebrali.

f.conti@univpm.it

F Conti insegna fisiologia umana all’Università Politecnica delle Marche

Primo piano sul numero di aprile 2016

Vittorio Gallese e Michele Guerra – Lo schermo empatico

In un film piuttosto divertente di alcuni anni fa il dottor Michael Hfuhruhurr, un eminente neurochirurgo, si innamora perdutamente di un cervello appartenuto alla dolce signora Anne Uumellmahaye, fino a decidere di trapiantarlo sulla perfida moglie Dolores. Ho perso la testa per un cervello (The Man with Two Brains, Rob Reiner, 1983) costituisce una buona metafora di quanto sta accadendo in una parte degli studi sul cinema… La recensione di Ruggero Eugeni (nell’area riservata agli abbonati).

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