Zygmunt Bauman – Retrotopia

Hobbes, la tribù, il ventre materno e la disuguaglianza

recensione di Daniele Di Bartolomeo

dal numero di gennaio 2018

Zygmunt Bauman
RETROTOPIA
ed. orig. 2017, trad. dall’inglese di Marco Cupellaro
pp. 206, € 15,
Laterza, Bari-Roma 2017

Zygmunt Bauman - RetrotopiaL’ultimo libro di Zygmunt Bauman, il grande sociologo polacco scomparso all’inizio di quest’anno, ha come titolo un efficace neologismo inventato dallo stesso autore: Retrotopia. Il volume postumo, edito in Italia da Laterza, parla di ritorni al e del passato. La “retrotopia”, infatti, spiega Bauman, è l’inverso dell’utopia, è un’utopia rivolta all’indietro: è la nostra recente attitudine a collocare nel tempo passato – e non più nel futuro o in un luogo leggendario – l’immaginazione di una società migliore. La tesi di Bauman è che oggi il cambiamento non sarebbe più pensato come un viaggio verso l’avvenire, quella terra incognita e immaginaria, insicura eppure favolosa sui cui lidi per secoli gli uomini hanno sperato e cercato di approdare, ma come un passo all’indietro, verso un tempo noto, rassicurante e, soprattutto, dotato di straordinarie potenzialità inespresse o negate. A causare questa brusca inversione di rotta è stato il fallimento delle utopie futuriste e l’incredulità ormai conclamata verso il mito del progresso: “Poiché ormai il futuro è per noi associato a un’idea di ‘sempre peggio’, o quanto meno di ‘sempre uguale’(…) non sorprende che quando cerchiamo idee che abbiano davvero un significato finiamo per rivolgerci, carichi di nostalgia, alle grandiose idee sepolte (forse prematuramente?) nel passato”.

Nel passato non ci sono soluzioni

Fin qui non ci sarebbe nulla di nuovo e di male. Non è infatti la prima volta nella storia che gli uomini usano il passato – inventandolo e modellandolo a piacimento – per formulare e legittimare idee politiche e per trasformare il mondo. Lo hanno fatto perfino i rivoluzionari francesi, che il mondo lo hanno cambiato davvero e, per larga parte, in meglio. Bauman, però, non la pensa così. Anzi, egli è profondamente infastidito dalla nostra attrazione smodata verso il passato, perché ritiene che voltandoci all’indietro non troveremo mai soluzioni per migliorare la società. A conferma di ciò l’autore fa un elenco impietoso di quelle che egli ritiene siano le più importanti e pervasive retrotopie del nostro tempo: progetti politici e personali non inclusivi e individualistici che non pretendono di correggere i vizi della società a vantaggio di un’entità collettiva ampia, ma solo di una parte ristretta della comunità o peggio ancora di sé stessi. A tal proposito, Bauman fa riferimento alle critiche feroci rivolte da cittadini e partiti politici all’Europa unita: insoddisfatti dagli esiti del progetto di integrazione europea, questi ultimi fanno appello a identità ed esperienze nazionali o regionali alternative esistite nel passato e che oggi, se riesumate, garantirebbero un maggiore benessere. Bauman detesta queste rivendicazioni, che considera anacronistiche in un tempo come il nostro in cui i rapporti umani dovrebbero ispirarsi ad una visione cosmopolita.

Il primo esempio di ritorno al passato discusso nel dettaglio da Bauman (che egli chiama Ritorno a Hobbes) è proprio l’opposto di questa sua visione inclusiva: è il ritorno al disordine tra e negli stati, ad un mondo che assomiglia a quello descritto da Hobbes prima dell’avvento di un potere pubblico capace di esercitare in modo misurato e legittimo il monopolio della violenza. In questo mondo, prosegue Bauman, gli uomini si ritrovano spauriti e privi di quei legami sociali di cui essi stessi hanno preteso di disfarsi a vantaggio di una libertà individuale esasperata. Uno stato di malessere a cui corrisponde l’altrettanto pericolosa tentazione di rifugiarsi in forme aggregative ancora più ristrette, ispirate a modelli arcaici di tipo tribale (Ritorno alla tribù), o addirittura di ritrarsi nella più estrema delle condizioni di solitudine personale (Ritorno al grembo materno). Questi tre tipi di ritorno al passato sono legati l’uno all’altro, e si alimentano vicendevolmente come in un circolo vizioso. Gli uomini ne sono responsabili in quanto pensano e progettano il ritorno all’indietro come la migliore delle soluzioni possibili ai mali del nostro tempo. Non tutte le retrotopie identificate da Bauman, però, sono una diretta conseguenza dei nostri pensieri e delle nostre azioni. Un caso diverso è quello del Ritorno alla disuguaglianza, ovvero l’aumento vertiginoso del reddito dei pochi più ricchi della terra a scapito dei più poveri. Qui non abbiamo a che fare con un gruppo politico che propone di rafforzare la disuguaglianza tra gli uomini o che sogna il ritorno di una società basata sulla disuguaglianza. Come a dire che esisterebbe, al di là della volontà degli uomini, una tendenza regressiva che li sospinge inesorabilmente verso il passato, ovvero verso condizioni di vita oggettivamente peggiori.

E se non fosse così?

Il libro di Bauman, scritto negli attimi finali di una vita vissuta da protagonista del dibattito intellettuale mondiale, nonostante l’invidiabile tenacia e lucidità dell’autore, risente delle considerazioni che un uomo si trova a fare nel momento dei bilanci. Accade così che anche un pensatore del suo calibro, che si è distinto per le acute e influenti analisi della crisi della modernità, si ritrovi infine a guardare al nostro tempo con lo stesso sguardo nostalgico che rimprovera ai suoi contemporanei, con la conseguenza che le sue riflessioni sull’attualità ne risultano non solo condizionate ma anche indebolite. Vi è poi un problema di equilibrio nella struttura del libro: a un’introduzione limpida e a tratti affascinante, fanno seguito quattro capitoli dedicati alle forme di ritorno al passato che abbiamo appena elencato, che risultano troppo schematici e ripetitivi e che, in fin dei conti, poco aggiungono a quanto già detto.

Cosicché a una prosa chiara e potente, fa seguito un racconto monotono e una conclusione appassionata ma scarna di contenuti, in cui Bauman ribadisce il suo giudizio fortemente pessimistico sul nostro tempo: o torneremo a guardare al futuro prendendoci “per mano”, intima l’autore, o finiremo “in una fossa comune”. Ci si potrebbe chiedere però se l’unica strada per costruire un futuro migliore sia davvero quella di disfarsi del passato. E se non fosse così? E se invece accadesse di nuovo, come è spesso successo nella storia dell’umanità, che a forza di rovistare nel passato riuscissimo a trovare ancora una volta l’ispirazione per immaginare un mondo diverso e migliore?

ddibartolomeo@unite.it

D Di Bartolomeo insegna storia moderna all’Università di Teramo