Bambini e scrittori

di Beniamino Sidoti

Nel 1989, durante la seconda edizione del Salone del Libro di Torino, compare un curioso espositore: le “Edizioni Selvatiche”. Allo stand si alternano diversi bambini che presentano centinaia di libretti piccoli o lunghi, personali o collettivi, con disegni e piccole storie, case e ritratti, poesie e fumetti: sono il frutto di un laboratorio pomeridiano di una scuola elementare lungo il Po, la Beata Vergine del Pilone di Torino, che oggi non esiste più. L’edificio scolastico ha cambiato infatti destinazione nel 1990, e così sono finite le Edizioni Selvatiche.

Erano nate nel 1980 e avevano prodotto moltissimi libri, piccoli e in copia unica. Molti di questi libri sono stati presi dai loro piccoli autori, mentre un centinaio circa, nell’arco di venti anni, sono rimasti all’insegnante Francesca Rol, per motivi disparati: dimenticati a scuola, avanzati dopo il disallestimento dello stand del Salone, e così via; tutti dentro un grande scatolone.

Oggi quella piccola capsula del tempo è stata riaperta ed è divenuta un fondo, custodito, catalogato e reso pubblico dal Museo della Scuola di Torino, Fondazione Tancredi di Barolo, che ne curerà in questo Salone la presentazione alla presenza degli autori, i bambini oggi diventati grandi.

Scrivere a scuola

Questa esperienza è preziosa e bellissima. Intendiamoci, a scuola, in Italia, tra gli anni Cinquanta e gli anni Novanta, si scrive tanto: scritture preziose di insegnanti, temi e ricerche, e soprattutto un fiorire di riviste scolastiche e di fogli ciclostilati. Nel 1951 era nata a Fano la Cooperativa della Tipografia a Scuola, che nel 1956 cambiava nome per diventare Movimento di Cooperazione Educativa, vero punto di riferimento per anni di conquiste e discussioni pedagogiche. La scrittura, e la stampa, erano strumenti centrali per maestre e maestri, bambine e bambini di tutta Italia: e a loro volta la scuola, e la questione educativa, erano centrali alla riflessione sociale. Con la stampa i bambini e le bambine, le ragazze e i ragazzi parlavano e scrivevano: mantenevano corrispondenza tra loro e con gli autori (e con giornali, magistrati, politici… come testimonia quel capolavoro che è la Lettera a una professoressa).

Scrivevano principalmente giornali e riviste, ma anche ogni tanto libri, in particolare libri collettivi, come è anzitutto Cipì di “Mario Lodi e i suoi alunni”. Negli anni usciranno anche recensioni di ragazzi, racconti, poesie, antologie… ma questa delle Edizioni Selvatiche è probabilmente una esperienza unica nel suo genere.

Un editore si studia infatti non guardando un libro, ma attraversandone il catalogo, le scelte fatte, i formati e le proposte. I libretti di Edizioni Selvatiche hanno al centro gli autori: ci sono i nomi, i ritratti e gli autoritratti di questi bambini. Leggendo i libri si ritrovano le loro voci, senza il filtro della correzione adulta: sono forse selvatiche per questo, perché nascono come gioco, come terreno di esplorazione e di scambio, come luogo di incontro con le comunità del territorio.

Racconti impensati

Facciamo un salto in avanti di qualche anno: Enrico De Vivo, professore nelle medie in Campania, tra il 1997 e il 1999 raccoglie i testi dei suoi allievi per costruire un volume che uscirà poi da Feltrinelli con la presentazione di Gianni Celati. Sono Racconti impensati di ragazzini, titolo bellissimo che cerca di prendere le distanze da Io speriamo che me la cavo, un grande successo editoriale di storie di bambini napoletani raccolti da Marcello D’Orta nel 1990 (e da altre raccolte ancora).

A De Vivo non importa documentare le ingenuità o la lingua buffa dei bambini, quanto cercare di capire cosa avvenga quando si inizia a scrivere, in quell’età in cui le cose si fanno “senza pensarle”, cioè senza “la falsa serietà con cui gli adulti usano la lingua”.

La presentazione di Celati si intitola “Leggere e scrivere” e dice cose molto interessanti: “Io credo che lo scrivere bene sia sempre un modo di scrivere in cui ti metti in posa affinché gli altri dicano che “scrivi bene”, e così ti leggano per obbligo, cioè male. Perché i lettori, sapendo che i libri “scritti bene” vanno considerati buona letteratura, non si soffermano neanche un momento sulla sviolinatura delle frasi, e possono filare a volo sulle pagine correndo verso l’agognato finale […] Allora non si riesce neanche più a vedere il fatto elementare dello scrivere, come una piccola pratica, una piccola cerimonia, una attività da formichine senza importanza come siamo”.

Nella vita di quella scuola elementare di Torino, di quei ragazzini delle medie della provincia di Napoli, scrivere è un’occasione per confrontarsi con il mondo, per misurarsi con le cose, per praticare “meraviglia per la realtà”.

Questa cosa accade dove c’è libertà, dove si va oltre la paura del giudizio e del giudizio scolastico; dove si scrive “senza tema”.

Libri e quaderni

Che differenza c’è tra i temi e i racconti? Tra i quaderni e i libri delle Edizioni Selvatiche?

Preso singolarmente, ognuno di questi libretti selvatici è una copia unica, qualcosa di scritto a macchina e colorato a mano. Sembra, cioè, un quaderno di scuola. Intorno c’è però un progetto di liberazione, che rende l’azione del fare libri un luogo dove dichiararsi, dove individuarsi e incontrarsi.

Walter, a dieci anni, scrive in Magia? Sì, magia! (s.d.): “Il camper Ford si fermava / e io mi arrabbiavo / il motore si era spezzato / e io l’ho portato da un meccanico / portalo dallo sfascia carrozze / per prendere un motore / il demolitore ce l’aveva / e il camper si è aggiustato”. Sono parole belle: non solo divertenti, ma limpide, lucide, di chi guarda e condivide la sua scoperta del mondo con altri compagni, di chi è autore perché ha la possibilità di raccontare il proprio sguardo sulle cose, ed è editore perché decide di farlo confrontandosi con una collettività.

Quando si ha questa possibilità, anche la lettura diventa qualcosa di significativamente diverso, cioè la possibilità di incontrare altri sguardi (che possono educare anche il nostro) e di ragionare intorno allo sguardo.

I lavori collettivi e quelli individuali

Alcuni di questi libri sono scritture collettive, sono cioè stati costruiti insieme da più autori: il gioco diventa esplicito, evidente (almeno per chi lo fa) e il tutto più compatto, più ritmato.

Molto bello per esempio La città dei pensieri (1988), fatto di disegni e brevi testi. Veniamo accolti con Il miraggio: “In mezzo al deserto / c’era una misteriosa città / con molte torri, / che da lontano sembrava un miraggio.”

Girando le pagine trovano spazio tutte le torri; per esempio “La torre dello specchio / Dentro c’era una bambina che si specchiava. / Si entrava da una porta fatta di specchi / e in alto c’erano due specchi piccoli / e uno grande. / E chi entrava vedeva specchi dappertutto.” O la torre della luna, o quella del fuoco, o del muraglione verde.

Sono libri felici, leggeri, in cui si creano spazi poetici per scoprire la realtà attraverso diversi strumenti, anzitutto fantastici.

Sfogliando i titoli dei libretti troviamo Le avventure di Wonder Dog e quelle di Gommino, Truciolina Principessa e Il giro del mondo di Chiriticì, L’incredibile Penny e Le avventure di Horus. In controluce possiamo riconoscere un immaginario che si va aprendo ai cartoni e ai fumetti giapponesi, i primi libri di successo per bambini, e altre cose ancora: ma quello che prevale è la libertà. Facendo la propria casa editrice, i Selvatici delle Edizioni Selvatiche hanno potuto cercare proprie strade anche all’interno dei suggerimenti che provenivano dall’immaginario collettivo. Perché la scrittura era pratica quotidiana, e la presenza del proprio marchio editoriale un luogo dove poter collocare anche i propri prodotti dell’immaginazione.

Una gran perdita di tempo

Perché non si fanno dappertutto esperienze di questo tipo?

Perché la scuola spesso è condannata alla produttività, a misurare quanto sapere trasmette e quanto è stato assorbito, a prendere concetti e dare voti: in questo senso, un’esperienza così liberatoria è una gran perdita di tempo, è un girare a vuoto che non possiamo permetterci.

No, non lo penso, sto riprendendo quelle parole vuote con cui spesso giustifichiamo il presente perché non immaginiamo un futuro.

Secondo me questa esperienza, queste esperienze, sono preziose, perché sono come “La casa dei cinque muri” che si trova in Il giardino incantato (1988): “C’erano due finestrine quadrate. / Chi entrava dentro faceva degli strani giri / e si divertiva. / Alla fine arrivava nel mezzo / dove c’erano due foglietti di spiegazione / di come era fatta quella casa. / E alle persone piaceva fare quei corridoi / perché gli piaceva fare tutti quei giri.”

bensidoti@gmail.com
B. Sidoti è scrittore e formatore