Antonio Tabucchi – Lettere a capitano Nemo

Un Verne filtrato da Butor

di Nicola Turi

Antonio Tabucchi
Lettere a capitano Nemo

a cura di Thea Rimini,
pp. 180, € 13,50,
Mondadori, Milano 2022

Undici anni dopo la sua morte continua ad arricchirsi l’opera postuma di Tabucchi, avviata nel 2013 dai saggi di Di tutto resta un poco (comunque supervisionati dall’autore per Feltrinelli) e dal romanzo Per Isabel. Un mandala (dallo stesso probabilmente percepito come ridondante variazione di storie già raccontate, sempre pubblicato da Feltrinelli) – anche se in verità Lettere a capitano Nemo non rientra propriamente nel novero dei manoscritti recuperati da polverosi cassetti dove erano stati (più o meno) tenacemente chiusi a chiave. Intanto perché già apparso, sempre con la cura di Thea Rimini, nel doppio Meridiano (Opere, Mondadori, 2015); e poi perché Tabucchi ne aveva pubblicati alcuni brani tra il 1977 e il 1978 sul “Caffè” (con titolo già verniano: Nel regno dei coralli), su “Tuttolibri” e su “Paragone” prima di abbandonare il progetto, ostacolato anche da rifiuti e rinvii editoriali, e poi di ricavarne, come segnalato nella Prefazione all’Angelo nero (Feltrinelli, 1991) che lo contiene, un racconto misterico e inquietante (ambientato nella Maremma toscana degli anni cinquanta) intitolatCapodanno.

Di quest’ultimo dunque oggi ancor più di ieri (grazie all’agile contenitore degli “Oscar Cult”) possiamo leggere per intero l’ipotesto che, al netto di quei due metri cubi d’aria (aspirati) con cui Manganelli misurava la distanza tra romanzo e racconto, presenta una struttura destinata a rimanere sostanzialmente immutata nel tempo. Ed entro la quale si snoda, in un gioco costante di sovrapposizioni temporali (tipico dell’autore), la giornata di un ragazzo (“dolente e crudele”: così Tabucchi) di nuovo alle prese, in una pausa natalizia dal collegio, con la memoria del padre ucciso dai partigiani, con la conseguente depressione della madre e con le atmosfere cupe rimandate dalla grande villa di famiglia: insomma con una dilagante e poi perfino allucinatoria solitudine.

In questo senso l’abortito o trasformato romanzo si inserisce in uno specifico filone tabucchiano, comprendente almeno (per la concentrazione di temi e situazioni che pure, isolati, si rinvengono anche altrove) i due racconti brevi I pomeriggi del sabato (nel Gioco del rovescio, il Saggiatore, 1981) e Gli incanti (Piccoli equivoci senza importanza, Feltrinelli, 1985): dove similmente, in effetti, impuberi protagonisti privati della guida paterna e angosciati dall’impermeabile apatia materna si confrontano con perturbanti misteri (o li proiettano sulla realtà che li circonda, così ostica).

Nel romanzo appena ripubblicato, per l’appunto, sono quelli che agli occhi di Duccio, scortato da un invisibile angelo custode, aleggiano, alimentati da smozzicate frasi degli adulti, su stanze buie e polverose, sulla vita nascosta dello zio Forese, sullo scantinato ancora infestato dalle ombre degli uomini giustiziati dal regime – nonché sul lago adiacente in cui uno degli aguzzini (non uno qualunque) è stato dato in pasto ai lucci e sostituito, nell’immaginazione (schizofrenica) del figlio, dallo spirito del Capitano Nemo. Guarda caso anch’egli assiduo frequentatore del regno marino e, benché temporaneamente vagante nella sua stessa dimora, destinatario delle missive del ragazzo, comunque insufficienti a conferire statuto epistolare al romanzo e continuamente riscritte proprio come questa narrazione liberamente ispirata a Verne e rielaborata a distanza di anni, che secondo movenze care all’autore si rifrange anche in riprese metatestuali (o poetiche a posteriori) intermedie (si veda, alla voce Storia di una storia che non c’è, l’ibrida raccolta I volatili del Beato Angelico del 1987).

E se la (doppia) presenza acquatica invoca ex ante la destinazione successiva della storia (abitata, la raccolta dell’Angelo nero, pure da cernie surrealiste e trote montaliane…), più in generale sono ulteriori apparizioni animali – la lepre da smembrare e cucinare, il topo infilzato nella rimessa come in un celebre racconto di Landolfi, il cavallo che si prepara alla monta… – a guidare la narrazione, l’attesa inquieta del cenone, catalizzando “in un gioco di trasposizioni da slogare il cervello” (direbbe il Kim del Sentiero calviniano) la crescente, generalizzata ostilità del giovane protagonista nei confronti dei genitori “spariti” e poi perfino dello sfuggente capitano di Verne, di un Verne filtrato da Butor (così, cripticamente, Tabucchi ad Alcide Paolini della Mondadori che ebbe in lettura il manoscritto: forse per la messe di messaggi criptici e sogni terribilmente reali che contiene, o per la vocazione vagamente poliziesca del racconto).

Fino a quando, progettato un attentato venefico (a base di putrefatto pesce rosso, ancora), il protagonista abbraccia l’idea di una fuga verso l’ignoto, sul Nautilus, prima di lasciare spazio, nell’ordine: a una nota o Postfazione d’autore che scruta le tappe del viaggio a venire; a un’appendice di lettere escluse in cui Duccio avrebbe interrogato il proprio amore per Nemo e respinto ogni sospetto di omoerotismo (viceversa difeso e dichiarato in un’altra, bellissima Lettera tabucchiana spedita da Casablanca); infine alla ricostruzione, da parte della curatrice, di una complessa vicenda editoriale e filologica (a partire da due versioni dattiloscritte) che restituisce la tenacia con cui Tabucchi ha difeso il proprio romanzo prima che altri progetti monopolizzassero le sue attenzioni, o magari di convincersi che un’operazione di asciugatura ne potesse accrescere la forza.

nicola.turi@unifi.it
N. Turi insegna letteratura italiana contemporanea all’Università di Firenze