Le inquietudini del nucleare nella letteratura italiana e nell’immaginario collettivo

L’estinzione della specie umana è un destino possibile

di Maria Anna Mariani

La questione nucleare riguarda l’Italia nel profondo. I primi esperimenti per la scissione dell’atomo avvennero a Roma, in via Panisperna: era qui che lavoravano Enrico Fermi e la sua cerchia di giovani collaboratori, per la maggior parte ebrei. Quando Fermi e i suoi colleghi emigrarono negli Stati Uniti per scampare alle leggi razziali, l’Italia arretrò inesorabilmente in campo scientifico, diventando una presenza subalterna. Ma è nel gruppo di via Panisperna che l’era atomica affonda le sue radici: il coinvolgimento della nazione nel percorso che portò alla tecnologia funesta è vistoso, anche se si tratta di una responsabilità indiretta. Gli italiani rimasero tra i principali creatori dell’atomica, ma non in Italia. Questa condizione di turbata complicità si amplifica se pensiamo alla posizione geopolitica del paese. Priva di un proprio arsenale, ma disposta a ospitare centinaia di armi atomiche americane, l’Italia ricopre un ruolo ambiguo: quello di una nazione profondamente implicata nel problema nucleare e al tempo stesso resa impotente di fronte ai suoi sviluppi.

Le inquietudini dell’era nucleare penetrano l’immaginario collettivo: perturbando la memoria, annerendo pensieri, occupando discorsi. La letteratura, in quanto organo dell’immaginario collettivo, ha messo in forma queste preoccupazioni in modo tempestivo e acuto. Autori centrali del nostro canone, come Calvino, Moravia, Morante e Sciascia, sono stati attenti diagnosti dell’implicazione italiana. Questi autori affrontano la questione atomica attraverso una gamma di forme sperimentali, che si accostano all’enormità metafisica del tema in modo spesso allusivo e obliquo. Generalmente liquidate come disimpegnate, deboli, o addirittura giocose, queste opere reclamano invece una lettura politica, che riconosca il loro incessante confronto con i paradossi dell’era nucleare.

Cominciamo con Moravia, figura principe del dibattito intellettuale italiano sulla questione nucleare. Nel 1982 Moravia visita Hiroshima e di fronte al monumento per le vittime dell’atomica è fulminato dalla consapevolezza del proprio coinvolgimento nel problema nucleare. In quel momento si rende conto di non essere più un individuo chiamato Alberto Moravia, di non essere più italiano e neppure europeo: ma solo un intercambiabile frammento della specie. Prende coscienza del fatto che l’umanità intera è eliminabile. La postura da intellettuale conoscitivo che aveva rivendicato fino a quel momento, ovvero la postura di chi è intento solo alla contemplazione invece che all’azione, all’improvviso gli sembra inadeguata. È così che decide di entrare in prima persona nella politica istituzionale, candidandosi al parlamento europeo per dedicarsi alla campagna antinucleare. È questa una mossa che percepisce come inevitabile, ma anche come contraddittoria e condannata al fallimento. E in effetti il suo impegno non si manifesterà tanto nelle aule del parlamento, ma nella sua scrittura, soprattutto quella giornalistica. Quelli di Moravia sono articoli che semplificano fino all’estremo la complessità della questione nucleare e che per questo si sono attirati il sarcasmo di tanta critica. Ma invece di ingenuità e assenza di sofisticazione, in questi articoli è possibile scorgere una strategia ben precisa: il tentativo, da parte di Moravia, di addomesticare il problema nucleare fino a renderlo una realtà familiare, evitando così di eclissarlo nella sfera sublime dell’impensabile.

Pro o contro la bomba atomica, la conferenza che Morante pronunciò nel 1965 al teatro Carignano di Torino, va al cuore della responsabilità italiana nella questione nucleare. Dentro questa manciata di pagine Morante rende flagrante il legame tra il patrimonio culturale italiano e le più aberranti deviazioni della ragione strumentale. Agli occhi della scrittrice l’Italia è pienamente corresponsabile dell’orrore atomico. Questa complicità pesa ancora di più se si considera la rimozione nazionale del problema nucleare, che Morante diagnostica proprio all’inizio della stessa conferenza. Eppure le riflessioni cruciali racchiuse dentro queste pagine raramente sono state prese sul serio. Quel che ha più opacizzato la comprensione di Pro o contro la bomba atomica è l’uso eslege della forma saggistica, percorsa da tautologie del pensiero e idiosincrasie dell’argomentazione, e suggellata da un kōan zen. Spesso ignorato dalla critica, o al limite considerato inadeguato alla gravità del tema, quel kōan – un indovinello impossibile da decifrare usando il pensiero logico – è invece il momento più formidabile del testo di Morante. È una tattica retorica che manda in tilt la capacità razionale e la più funesta delle sue invenzioni: l’arma atomica.

Più inaspettato è l’intervento di Calvino. Nel corso della sua traiettoria intellettuale Calvino ha contemplato con preoccupazione il problema dell’energia atomica e delle armi nucleari, scrivendone negli articoli giornalistici e punteggiando di allusioni metaforiche la cosiddetta fase autoreferenziale e disimpegnata della sua produzione. Pensiamo alla raccolta Le Cosmicomiche, denigrata dalla critica come gioco vacuo e tipicamente postmoderno. Si tratta al contrario di un’opera plasmata dalla minaccia dell’estinzione collettiva che imperava negli anni in cui fu scritta, proprio a ridosso della crisi dei missili cubani. Nel racconto I Dinosauri il protagonista Qfwfq incarna l’ultimo dinosauro sopravvissuto. Mentre contempla lo scheletro di un suo antenato si raccoglie in una lamentazione funebre che è anche un mea culpa: un mea culpa per le azioni compiute, che hanno portato alla rovina collettiva. Parole simili fanno arretrare il soggetto che le pronuncia, assumendo una tonalità impersonale. La loro solennità invita chi legge a riflettere su un momento di massima e condivisa precarietà esistenziale. A emergere è il timore di abitare una superficie minacciata, un pianeta irritabile in cui non si è altro che materia organica soggetta alla distruzione di massa. L’estinzione della specie è un destino possibile: è già accaduto.

E infine troviamo il Majorana rappresentato da Sciascia. A metà tra un’inchiesta letteraria e un’agiografia laica, La scomparsa di Majorana idealizza fino alla capziosità il suo protagonista, brillante fisico della scuola di Fermi che sparì in modo misterioso, lasciando dietro di sé una scia di piste contraddittorie. Secondo Sciascia la causa della sua sparizione non può che essere una: Majorana intravide la devastazione dell’atomica. Il suo ritrarsi dal mondo è il gesto radicale di un santo, che rinuncia a tutto pur di scongiurare la costruzione della bomba e garantire la sopravvivenza dell’umanità. Raccontando la storia di Majorana, Sciascia plasma un’allegoria morale che sprona chi legge a meditare sul concetto di implicazione. La scomparsa di Majorana rappresenta un soggetto che avverte su di sé il peso della colpa prima che la colpa stessa sia stata definita, e che sarebbe stata in ogni caso non imputabile alla sua responsabilità individuale. E tuttavia è un soggetto che si arrovella per la colpa: di cui sente la straziante pressione. Attraverso la vicenda di Majorana, di questo scienziato che si distoglie dall’agire, Sciascia non intende solo esaltare un individuo che cerca di imprimere un corso diverso alla storia. Il suo obiettivo è anche di condannare la responsabilità della fisica italiana nello sviluppo della tecnologia nucleare. Nelle pagine di Sciascia la responsabilità storica del paese risulta flagrante.

Tenere fissa l’attenzione su questi testi è oggi della massima urgenza. Stiamo assistendo a una nuova stagione di arte a tema nucleare, arte che fa da cassa di risonanza a un’inquietudine che è tornata a imporsi con prepotenza. L’ultimo esemplare nostrano di questa produzione artistica è Manhattan Project, dove Stefano Massini dà voce a un gruppo di fisici ebrei, espatriati per scampare alle leggi razziali, che in America finiranno per progettare la bomba atomica, guidati da un Oppenheimer tanto visionario quanto turbato. Questo testo teatrale, caratterizzato da impennate liriche, sezioni salmodianti e frasi-schegge, oltre a dialogare con il Majorana di Sciascia e con il genere teatrale tedesco Physikerdrama, ha anche affinità vistose con l’Oppenheimer di Christopher Nolan (cfr. “L’Indice” 2023, n. 10), con cui condivide la rappresentazione minuziosa e lacerata del suo prometeico protagonista. Il distruttore di mondi occupa oggi il nostro immaginario con più intensità che mai.

maria.anna.mariani@gmail.com
M. A. Mariani insegna letteratura italiana moderna all’Università di Chicago