Un ricordo di Primo Levi

Dalla mostra Le ossa della terra un’anteprima di ricordi inediti

Venerdì 26 gennaio si è inaugurata al Museo nazionale della Montagna (Torino, Monte dei Cappuccini 7) la mostra Le ossa della terra. Primo Levi e la montagna, curata da Guido Vaglio e Roberta Mori, frutto di una collaborazione tra il Museo e il Centro Internazionale di Studi Primo Levi di Torino. La mostra rimarrà aperta fino al 13 ottobre (martedì-venerdì10.30-18, sabato-domenica10-18).

Il testo di Massimo Gentili-Tedeschi che qui presentiamo, tratto dal catalogo, offre – in aggiunta a un Primo Levi più vivo e vivace che mai – una quantità di fatti e di ricordi inediti, presentati con percettibile quanto sobria emozione. Ma questo Primo ricordo di Gentili-Tedeschi rappresenta anche la prima tappa di un percorso comune che il Centro studi Primo Levi e L’Indice dei Libri del Mese intraprendono di qui fino al prossimo maggio, e che si avvia nel segno di una importante ricorrenza. Il 22 febbraio 1944 cominciava infatti, dal campo di raccolta di Fossoli, il viaggio verso Auschwitz di Primo Levi, Vanda Maestro e Luciana Nissim: un “viaggio all’ingiù” – come Levi lo definisce in Se questo è un uomo – del quale ricorrono dunque gli ottant’anni. L’occasione è parsa la più appropriata, tantopiù nell’attuale frangente storico-politico, per costruire un progetto dal titolo Primo Levi. In viaggio verso il futuro. Mese dopo mese, dunque, di qui a maggio, saranno presentate le iniziative che in questi ultimi anni e durante i prossimi si sono svolte e si vanno preparando, a livello internazionale, nel nome di Primo Levi.
In viaggio verso il futuro sarà un percorso folto quanto versatile, sarà un percorso multimediale, sarà un percorso che riserverà via via – soprattutto nella conclusiva tappa di maggio – un insieme sorprendente di novità offerte,dal Centro studi Primo Levi di Torino, in esclusiva alle lettrici e ai lettori dell’“Indice”.

Primo ricordo
di Massimo Gentili-Tedeschi

Primo, e basta. Non c’era bisogno di cognomi, a casa: si sapeva che era lui, così come mio padre era Euge, per gli amici più cari. Ed è Euge nel capitolo “Oro” del Sistema periodico.

Torinesi entrambi, Primo ed Euge erano amici dai tempi del liceo, anche se mio padre era tre anni più vecchio; tutti e due appassionati di montagna, compagni di ragionamenti, decisi fin da giovani su quello che avrebbero fatto da grandi, uno il chimico, l’altro l’architetto. Li accomunava la chiarezza di vedute, il senso dell’ironia un po’ piemontese, molto ebraico anche se, pur frequentando in qualche modo la comunità, nessuno dei due era particolarmente assiduo al tempio. È quella voglia di sberleffo, di pernacchia con cui avevano dipinto la drammatica situazione degli ebrei durante la guerra, precettati a fare lavori umilianti per i soldati mandati a morire al fronte, oppure, all’opposto, liberi di lavorare per chi, come Gio Ponti, non si curava delle etichette razziali e prendeva tranquillamente nel suo studio uno come mio padre.

Primo, Euge, Silvio Ortona, Ada Della Torre, Vanda Maestro e altri amici, in buona parte ebrei torinesi, si trovano praticamente ogni sera a discutere di politica, di filosofia, a scherzare, qualche volta a inventare filastrocche. Qualcuna viene appuntata su un foglietto volante, un giorno decidono di metterle nero su bianco in un quadernetto di quinta elementare comprato lì per lì. E così, tra l’ottobre e il novembre 1942, nascono i Libri segreti: lo stesso quadernetto scritto prima sul recto, poi sul verso delle pagine. Il motore delle filastrocche è rimasto nel nostro lessico familiare: una frasetta o un verso che inizia con “ecco un…”, seguito da un immancabile “si volta il foglio e si vede…” concluso in rima baciata, che dà lo spunto al primo verso della filastrocca successiva; nei libri segreti queste filastrocche quasi infantili bastano per rendere l’idea della vita loro e della vita di tutti, con sarcasmo e senso del ridicolo, soprattutto verso i dittatori nazifascisti. Mio padre, che aveva una mano felice, illustrava ogni filastrocca con uno schizzo, a volte poco più di un tratto di penna, ma sufficiente a mettere bene in chiaro che quella di cui si rideva era una tragedia.

Una filastrocca che irrideva le prime sconfitte degli italo-tedeschi nella guerra d’Africa suscitò parecchie discussioni nel gruppo: “Ecco un arrosto da gran tempo atteso / si volta il foglio e si vede un obeso”; per fare intendere di che arrosto si trattasse, mio padre aveva disegnato un militare nordafricano che versava un pizzico di sale su un soldato tedesco ridotto a una salsiccia con l’elmetto e infilzato su uno spiedo, con tanto di fumo e fiamme colorate di rosso. Una nota al primo verso diceva “Fuorché da Primo e da Silvio e Ada è perplessa” a testimoniare la non unanimità. Dopo la guerra erano tornati sull’argomento, le perplessità, ma non le divergenze, erano svanite. Ulteriori note aggiungono: “11/3/’46: Primo non è più dissidente”, scritto e firmato da lui, “14/3/46 Silvio non disside più”, “Ada non è più perplessa: non si devono mettere i tedeschi allo spiedo”.

Più tardi furono le Cronache di Milano, dove più lunghe filastrocche descrivono le avventure e le disavventure del gruppetto di amici e dove Primo è spesso un protagonista: annunciato da un “pissi pissi, aiunt, tradunt”, poi finalmente arrivato, quasi un cherubino alato, un angelo con piccozza e provette, tutte le volte riconoscibile per la sua testa romboidale e spigolosa, i capelli corti e stempiati, sempre serio e un po’ accigliato, il labbro di sotto sporgente e le orecchie a punta.

L’amore per la montagna, dicevo. Lo si trova in decine e decine di albumetti di fotografie formato 5×8 che ritraggono molti di quegli amici nel corso delle loro ascensioni su tutte le cime più importanti e impegnative delle Alpi. Pareva quasi che la guerra non esistesse. Mio padre mi raccontava delle fughe giovanili da Torino in bicicletta o sulla corriera, all’insaputa dei genitori, per andare ad arrampicare da qualche parte. Mi raccontava della pericolosa ed entusiasmante enjambée, un salto sul vuoto per superare una spaccatura della roccia e andare a scalare il Cervino.

Che sarebbero andati partigiani non c’era alcun dubbio: trasformare i loro sberleffi in un’azione concreta fu un passaggio quasi ovvio, naturale, ben prima dell’otto settembre; erano tutti impregnati di antifascismo già dai tempi del liceo. Si trattava solo di capire dove andare. Ciascuno scelse a suo modo. Mio padre partì per la Valle d’Aosta, e dopo alcuni contatti optò per la valle di Cogne. Fu così che dopo un mese nel carcere di Aosta, frutto di una spiata, e un’evasione un po’ stramba, prese la corriera e si arruolò nella brigata Arturo Verraz. La prigionia gli rimase appiccicata nel nome partigiano: Galera.

Primo invece no, con Luciana Nissim e Vanda si erano accampati alla bell’e meglio non lontano, nei pressi di Brusson, nella val d’Ayas, mal preparati e peggio armati. Qui le storie di vita partigiana che ogni tanto mio padre mi narrava, quando ero piccolo, si riempivano di amarezza e di rabbia. Vanda gli aveva addirittura proposto di raggiungerli nonostante la precarietà della sistemazione, spiegando che sì, tutti sapevano di loro, ma che erano benvoluti e anche la moglie del podestà era carinissima con loro e a suo dire li appoggiava. Lui era andato su tutte le furie “Andatevene immediatamente! – aveva detto e ripeteva anche a me con voce stentorea – siete pazzi a rimanere lì”. Ma non c’era stato nulla da fare. E la rabbia di mio padre era ancora maggiore per non essere stato capace di convincerli, un senso di impotenza nel saperli presi come fringuelli, una mattina di poco tempo dopo, mentre ancora sonnecchiavano incoscienti. Una cattura così facile, così inutile… e poi fu la tragedia che ben conosciamo, dalla quale Vanda e altri non tornarono più. Triste ironia, fu la montagna che tanto amavano e tanto li univa a portare Primo e gli altri alla disgrazia.

Vedevo Primo da ragazzino, quando veniva a Milano, prima nella casa di corso Sempione poi in viale Elvezia 18, si fermava a pranzo da noi, preannunciato dagli stessi mormorii di un tempo. Era sempre un’occasione particolare, mio padre tornava a casa dallo studio molto prima del solito e poi restava a lungo a parlare con l’amico di sempre, come se si fossero lasciati il giorno prima. Ricordo la voce di Primo un po’ metallica, quel fine accento torinese ma alle mie orecchie non troppo marcato, la curiosità verso le cose più minute che spesso diventavano altro, l’occasione per ripensarle, vederle sotto un’altra prospettiva. Parlava come scriveva, un linguaggio diretto che stupiva per la sua chiarezza e lucidità. Un giorno si misero a giocare con le parole formando dei palindromi, una delle passioni di Primo. Mio padre prese un cartoncino di quelli tenuti sempre accanto al telefono, buoni per prendere appunti e per scarabocchiare con matite o pennarelli colorati paesaggi che poi sarebbero magari diventati dei quadri. Su quello Primo iniziò a scriverne qualcuno di quelli che aveva inventato: “È mala sorte: ti carbonizzino braci, tetro salame”, ma dopo il quarto ne escogitarono uno nuovo, “Erede, sodo sedere”, un filino scurrile ma tanto simile ai giochi di parole di un tempo…

Quella fra loro era un’amicizia sincera, piena di fiducia e stima reciproca; prova ne sia che in vista della pubblicazione Primo era uso far leggere i suoi scritti a mio padre per avere il suo parere. Di lui ci restano alcuni dattiloscritti: uno è Il re dei giudei, con le fotografie della moneta da cui nasce la storia, datato 23 ottobre 1977, zeppo di correzioni, cancellature, inserti, pecette, frutto di innumerevoli ripensamenti; un altro è La carne dell’orso, racconto di racconti di montagna, frutto di quasi un anno di lavoro, datato Corvara, agosto ’60 – Finale Pia, luglio ’61, con giusto qualche correzione qua e là.