recensione di Emilio Patavini
Hope Mirrlees
Lud nella Nebbia
trad. dall’inglese di Lucrezia Pei
pp. 320, € 24
Cliquot, Roma 2024
Cresciuta in Scozia e Sud Africa, Hope Mirrlees (1887-1978) fu allieva (e forse amante) della classicista Jane Harrison, con cui collaborò a due traduzioni dal russo. Nel 1920 pubblicò con la Hogarth Press di Leonard e Virginia Woolf Paris, un poema modernista di 600 versi che influenzò l’amico T.S. Eliot e la stessa Woolf. Il suo ultimo romanzo è il fantasy Lud nella Nebbia, uscito nel 1926, ma riscoperto solo nel 1970 grazie a Lin Carter. Recentemente è stato pubblicato per la prima volta in italiano da Cliquot in un’edizione tradotta da Lucrezia Pei e illustrata da Gaia Eloe Cairo, con prefazione di Neil Gaiman. Lo sfondo su cui si muovono i personaggi è il Libero Stato di Dorimare, nato a seguito di una rivoluzione in cui i mercanti hanno preso il potere instaurando la Legge e bandendo tutti gli oggetti fatati provenienti da Faërie, il Paese delle Fate. Ogni riferimento alla magia è divenuto quindi osceno tabù. Protagonista della storia è Nataniel Cantachiaro, sindaco di Lud nella Nebbia, la capitale di Dorimare. L’apparente tranquillità in cui sembrano vivere gli abitanti di Lud viene turbata quando cominciano a verificarsi strani eventi: prima il giovane figlio del sindaco, Ranulfo, accusa i sintomi da intossicazione da frutta fatata, poi le studentesse di un’accademia di danza spariscono misteriosamente e infine una bara sembra trasudare sangue. Uomo di successo ma spirito inquieto e malinconico, Nataniel Cantachiaro si ritrova a vestire gli improbabili panni dell’eroe, disposto a mettere a repentaglio la vita e la reputazione pur di salvare il figlio e far luce sulla verità. La storia abbandona così le premesse pastorali e muta via via in racconto d’avventura, commedia, diario di viaggio e infine giallo giuridico. Il contrabbando della frutta fatata è la tematica centrale del romanzo, che trova forse ispirazione nel poema Goblin Market (1862) di Christina Rossetti. Il consumo del frutto proibito, in quanto rottura del tabù, costituisce infatti il peggiore dei crimini e, come una vera e propria droga, porta chi lo assuma a strane visioni e all’assuefazione. Questo fantasy folklorico sfugge a ogni tentativo di classificazione per la sua unicità: con una prosa elegante ed evocativa, che alterna uno humour sottile a un tono sentenzioso, il lettore viene guidato sino a varcare le soglie del Paese delle Fate, identificato dall’autrice con il regno dei morti (la “gente silenziosa”). Il suo confronto con Il Signore degli Anelli appare tanto scontato quanto fuorviante: certo, gli abitanti di Lud sono dediti ai piccoli piaceri domestici, sono sospettosi dell’avventura, fumano la pipa e hanno buffi nomi parlanti (tutti tradotti in italiano) come gli hobbit di Tolkien, ma il romanzo ha più a che fare con Il sogno di una notte di mezza estate shakespeariano.