Damir Ovčina e il periodo più buio di Sarajevo

La presa diretta di Damir Ovčina sulla scia di una solida tradizione letteraria

di Matteo Fontanone

Da qualche anno – è una sensazione, non una statistica – intorno ai Balcani sta nascendo un nuovo interesse. Turistico, certo, ma di riflesso letterario. Il punto è che solo a parlarne, solo a menzionarli, si rischia sempre di inciampare nella generalizzazione, nel luogo comune, nei cliché più oziosi. Se proprio si vuole raccontare un territorio così sterminato e ricco di diversità culturale, di frontiere e di conflitti (ci basti pensare alle ultime, crescenti tensioni tra Serbia e Kosovo nell’area di Mitrovica), non lo si può certo fare semplificando le cose: i saggi di mille pagine esistono proprio per questo.
Al centro dei Balcani poi c’è Sarajevo, e qui, di nuovo, la questione si complica. Teatro dell’ultima guerra sul suolo europeo prima dell’invasione russa in Ucraina, è una di quelle città su cui la storia sembra essersi accanita: da Francesco Ferdinando in avanti, qualsiasi preambolo, cornice o cappello introduttivo sarebbe un mortificante esercizio di retorica. Ad esempio: la Gerusalemme d’Occidente, il punto d’incontro tra Islam e cattolicesimo, la città capace di resistere eroicamente a un assedio feroce durato anni. Ecco, l’assedio. Forse, al di là dei caffè e delle kafane nella Baščaršija, delle case coi tetti a spiovente abbarbicate sui versanti del “catino” e del richiamo dei muezzin dai mille minareti, la fascinazione occidentale per Sarajevo nasce proprio dalla guerra. Dall’impressione di camminare per strade e viali che trent’anni fa erano nel mirino dei cecchini cetnici, dalle ormai famosissime “rose” sparse per il centro, dai tanti musei che raccontano giorno dopo giorno il procedere dell’escalation e le tappe del disastro. Un po’ come a Belfast, dove gli ex militanti dell’Ira organizzano i tour sui luoghi simbolici dei Troubles.

Per fortuna che, oltre alla possibilità di viaggiare e immergersi nel flusso di una città ormai iper-contemporanea e in grado di assorbire senza sforzo i movimenti del turismo (quasi) di massa, Sarajevo e la Bosnia le conosciamo anche attraverso una solida tradizione letteraria, mai così fiorente come in questi ultimi anni. Da un punto di vista storiografico “duro”, intanto, conviene partire dall’opera monumentale di Joze Pirjevec, Le guerre Jugoslave (Einaudi, 2001). Un testo per studiare, capire, problematizzare un conflitto i cui risvolti agiscono ancora quotidianamente sui paesi un tempo governati dal maresciallo Tito come tensioni a lento rilascio. Nell’ambito del reportage, invece, non smetteremo mai di segnalare come lettura di riferimento La guerra in casa di Luca Rastello, che la Bosnia l’ha conosciuta da vicino. L’obiettivo di Rastello, a poco più di due anni dagli accordi di Dayton, era di raccontare la complessità del campo di battaglia attraverso il grande tema degli aiuti umanitari e dell’interventismo pacifista. Ne emergeva, all’epoca, un quadro frastagliato e di difficile interpretazione, tra signori della guerra, eserciti privati, mercenari disposti a passare da una parte all’altra della barricata da un giorno all’altro. Quell’insieme di scritti era un monito, e lo è tuttora: invitava a non cadere nella tentazione degli schematismi, in una certa misura ad abbracciare il caos.

Per leggere di Bosnia e di Sarajevo in letteratura, probabilmente era necessario un tempo di sedimentazione. Chi era bambino, adolescente o ragazzo durante il conflitto doveva elaborare, lasciare che i materiali della memoria si depositassero. Ovviamente, però, con un’eccezione. Miljenko Jergović all’epoca della guerra non aveva neanche trent’anni. Si trasferisce a Zagabria in modo rocambolesco, e lì, nel 1994, dà alle stampe Le Marlboro di Sarajevo (edito in Italia da Bottega Errante, 2019), una raccolta di racconti fiabesca e giovanilistica, la prima testimonianza narrativa di cosa stava succedendo – oltretutto ad assedio ancora in corso. Per la prima volta, Jergović mette a sistema un umorismo nello scrivere il dramma che diventerà quasi la cifra stilistica di tutta la città. Il libro si trasforma presto in un piccolo oggetto di culto, le storie al suo interno sono commoventi e stralunate, l’atrocità affiora tra le righe, in silenzio, senza esibizione e senza nemmeno un chiaro proponimento politico. Anni dopo, Sarajevo verrà raccontata in un’altra raccolta ormai notissima, anche se il suo autore, Aleksandar Hemon, si fermerà un passo prima della guerra: Il libro delle mie vite (Einaudi, 2013) è la storia a pannelli di un uomo che abbandona la Bosnia grazie a una borsa di studio e arriva a Chicago: esule per sempre, apolide, nei primi racconti i suoi ricordi si posano sulla città poco prima che i serbi la assediassero. C’è lo sconcerto e c’è l’incredulità per la guerra alle porte, ma affiora anche il ritratto di una società vivace e mossa, intrinsecamente underground: come nella Weimar prima del nazismo, a Sarajevo prima della guerra si festeggiava a più non posso, quasi ad assaporare ogni secondo residuo di pace. Un ribellismo, uno sberleffo alla catastrofe e alla morte tutta intorno, che continuerà a riecheggiare persino durante i momenti più duri dell’assedio: i ritrovi nei tunnel sotterranei, le feste al leggendario club Kino Bosna, addirittura l’elezione di miss Sarajevo durante la guerra hanno senz’altro contribuito alla costruzione di questa strana mitologia. A proposito di scrittori apolidi e di fughe dal paese in guerra civile, un piccolo inciso: nel 2021 l’editore Keller ha pubblicato Origini, il memoir di Saša Stanišić. Sarajevo in questo caso c’entra relativamente, perché l’autore racconta la storia della sua famiglia – e in parallelo quella del suo sradicamento – nella piccola città di Višegrad, appoggiata sulla Drina e quasi al confine con la Serbia. È un libro importante, perché pur senza grossi traumi o apici di tensione mette in scena il dramma di una comunità che si disgrega, e tutte le difficoltà del ritorno – sempre sporadico, perché la vita va avanti e si ristruttura altrove – nei luoghi dell’infanzia. Ancora a proposito di memoir e autobiografismo, torniamo a Hemon e Jergović. La loro è una parabola curiosa, perché in fondo piuttosto simile. All’interno di una produzione e di un immaginario vasto, per nulla confinato alle guerre balcaniche, a un certo punto della loro carriera entrambi sentono il bisogno di tornare alla famiglia, di dipanare la loro storia, di colmare i buchi con la letteratura e, con la letteratura, andare a caccia dei tasselli mancanti. Nel 2020, sempre per Bottega Errante, esce in Italia la traduzione di Il padre di Jergović; un anno dopo, Crocetti pubblica il doppio libro di Hemon I miei genitori e Tutto questo non ti appartiene. L’operazione di fondo è la stessa: convocare i genitori, inserirli in una dimensione narrativa, guardare da vicino le loro vite e farne un tramite per dire la città, le convenzioni, le mode, le frustrazioni generazionali e i sogni di futuro. Prima durante i lunghi anni della Jugoslavia, un’entità verso la quale il lettore più attento in questi testi sentirà sovente una certa nostalgia di fondo, poi nell’incertezza del disfacimento e dei primi nazionalismi, infine sotto i colpi delle mitragliatrici e dei mortai accampati sul monte Trebević. In entrambi i lavori, ma in Jergović soprattutto, la dimensione privata si apre a quella etnografica e politica: il padre dell’autore, medico, si è occupato per tanti anni degli abitanti dei primi comuni fuori città, le stesse comunità serbe che avrebbero propiziato e dato il via all’assedio nel 1992. Da parte di madre, invece, una discendenza di comprovata fedeltà ustascia: tra l’uno e l’altra, la miglior piattaforma di partenza possibile per restituire l’intricata composizione sociale, religiosa e quindi anche etnica dei cittadini di Sarajevo: croati cattolici, serbi ortodossi e bosgnacchi musulmani.

Tutta questa panoramica per arrivare, in coda, al cuore di queste riflessioni: da qualche mese è uscito (ancora per Keller) un romanzo intitolato Preghiera nell’assedio di Damir Ovčina, e conviene dire subito che per certi aspetti si tratta di un capolavoro della letteratura contemporanea. Il suo autore all’epoca della guerra aveva appena vent’anni: la sua esperienza autobiografica qui è messa al servizio di un progetto stilistico di enorme respiro. Ovčina racconta le vicende di un ragazzo che quando scocca l’assedio sta vivendo dei giorni difficili, di grande confusione, e nelle ore più concitate si ritrova nel quartiere sbagliato, Grbavica, a maggioranza serba. Queste sono le premesse, perché poi la narrazione si srotola come un susseguirsi martellante di gesti, movimenti nello spazio, azioni, e lo fa ininterrottamente per settecento pagine. Con una scrittura in prima persona iper-denotativa, ritmata fino alla frenesia eppure fresca, immediata, diaristica, che spesso assomiglia alla rielaborazione di appunti presi a fine giornata su un taccuino: annotare tutto, si ripete come un mantra per tutto il romanzo. Lo sguardo di Ovčina è ricco fino al soffocamento, comprende ogni cosa, cattura i particolari più insignificanti, annota per non dimenticare: la neve sui tetti, la vista da una finestra, questo o quel dialogo di poco conto, le tenebre che calano di notte sulla città, il gesto di un ragazzo che smonta una cartucciera, il dolore di una madre rimasta senza famiglia, ogni singolo calcio e sopruso che ha visto o subito. È un gesto programmatico, il tentativo (sperimentale e riuscito) di costruire una lingua che ricostruisca una sensazione di presa diretta, per non rimuovere niente e rendicontare tutto. E questo tutto, nello specifico, sono anni di assedio senza poter mai tornare a casa, la guerra vista al rovescio, dalla parte dei serbi pur non essendo serbo: il protagonista rimasto “in trappola” è costretto ad arruolarsi nella Protezione civile della repubblica Srpska di Karadžić, con il compito di fare da becchino ai morti di guerra – spesso civili uccisi per esercizio della violenza, cupidigia o pulizia etnica – e scavare trincee per facilitare il lavoro dell’esercito assediante. Su un piano tematico e per così dire ideologico, Ovčina riflette intorno all’orrore e alla sua elaborazione, e poi sull’effetto delle azioni criminali commesse da e contro persone normali, su come si elabora un trauma a livello personale e cittadino, su come la colpa e la responsabilità possano essere incredibilmente sfumate e un secondo dopo nettissime, invalidanti. È un romanzo straordinario perché anti-retorico e non voyeruistico, Preghiera nell’assedio. È al centro della guerra, ma ne racconta i margini, la seconda linea, le conseguenze, insomma la miseria lontana dalle immagini simboliche che tutti conosciamo. E per questo, per il suo tentativo continuo di mescolare l’umano e l’orrore nel periodo più buio di Sarajevo, è già una pietra miliare della letteratura sulla città.

matteo.fontanone@gmail.com
M. Fontanone è italianista ed editor