Interrogare il paesaggio senza risposte: le esplorazioni di Paul Lynch

Due uomini e la trappola del mare sconfinato

 

Intervista a Paul Lynch di Matteo Fontanone

 

Il suo nuovo lavoro trae ispirazione da un fatto di cronaca clamoroso. Cos’ha pensato, quando ha letto la notizia di un pescatore messicano trovato vivo su un’isola remota del Pacifico dopo mesi e mesi di naufragio in mezzo all’oceano?

Ho visto la possibilità di un esperimento letterario. Non volevo scrivere un thriller marittimo, la storia di un naufragio per mare e poi di un’eroica sopravvivenza: sarebbe stato noioso, scontato. Ho visto Bolivar ed Hector attraversare un inferno fatto di vergogna e rimpianto, di onde altissime, ripensamenti, litigi, esasperazione e terrore.

In Oltremare si verifica, a livello narrativo, una situazione paradossale. L’arco temporale è vastissimo, perché la deriva del peschereccio dura quasi un anno, e in teoria è vastissimo anche lo spazio attraversato dalla barca in balia delle correnti, eppure lo scenario è immobile. Il mare cambia in continuazione ma è sempre uguale a sé stesso, e i pochi metri camminabili da Bolivar ed Hector restituiscono presto una sensazione di claustrofobia.

Questo succede perché ho creato uno spazio in cui il tempo, in qualche modo, collassa. E in cui mancano tutti gli appigli e gli stimoli della contemporaneità. Ci sono due uomini, il mare intorno a loro, l’istinto di sopravvivenza. Oggi è sempre più difficile raggiungere una condizione di silenzio e assorbimento totale: anche quando sei seduto in poltrona a leggere, i tuoi neuroni ti chiedono con sempre più insistenza di controllare il telefono. La mia invece è una storia di silenzio: è come se, in mancanza del mondo esterno, avessi obbligato Hector e Bolivar a dar fondo alla loro interiorità. Ciò che mi interessa, da scrittore, è l’evocazione. Scrivo per creare dei mondi, delle storie con una simbologia precisa: credo che ogni scrittore, o almeno ogni scrittore serio, dovrebbe ambire ad avere una mitologia personale. E in questo libro ho creato uno spazio che mi piace pensare come mitologico. È l’esperimento di cui parlavo prima, una gabbia antropologica. Ho intrappolato due uomini su una barca alla deriva e li ho messi a contatto con le domande che da sempre mi interessano, su cui rifletto ogni giorno anche io. È un libro piuttosto esistenzialista.

“Sono solo un pescatore”, ripete come un mantra Bolivar lungo tutto l’arco del libro e del naufragio. Sul suo passato si aprono squarci, il narratore scava dentro i suoi fantasmi e indaga la sua sofferenza. Eppure intorno a lui si mantiene sempre una sorta di un mistero, ci sembra di non conoscerlo mai davvero.

All’inizio del libro, Bolivar non prende niente sul serio. È un uomo cinico, disincantato, un personaggio interessante con cui lavorare: ha una resistenza nei confronti del mondo, ma credo che allo stesso tempo il lettore senta una resistenza verso di lui. Ogni volta che si ripete di essere solo un pescatore, qualcosa dentro di lui cambia, come se facesse uno scatto in avanti. Il mio obiettivo era di renderlo un personaggio sempre in movimento anche se confinato in un universo che sembra sempre statico. Deve attraversare il suo inferno per raggiungere uno stato di grazia, e parlo di grazia in un’accezione “secolare”, non religiosa. Una grazia che ognuno di noi può ambire a raggiungere, attraversando e vincendo le proprie sfide. Alla fine del libro, quando ripete ancora una volta di essere soltanto un pescatore, Bolivar stesso sa che non è più così, e noi con lui. È diventato qualcosa d’altro, un personaggio trascendente.

Mi pare che uno dei nuclei centrali della sua letteratura, evidente in quest’ultimo romanzo ma anche nel precedente trittico irlandese, sia l’espiazione.

Mi interessa ragionare intorno a questa domanda: come ci definiamo, in quanto uomini, quando siamo di fronte all’assoluto? In Grace, ad esempio, la protagonista perde la facoltà di parola, ed è una scelta non casuale: ciò che ha passato è difficilmente dicibile, non sarebbe stata in grado di raccontare ciò con cui si è misurata. Per sopravvivere ha dovuto compiere scelte e prendere decisioni che a nessuna sua coetanea sarebbero state chieste, di cui si vergogna. Se c’è vergogna, ci dev’essere anche tormento. In Oltremare, Bolivar parte da una situazione di vergogna. È un’emozione potente, perché gli esseri umani la sanno nascondere bene, ma poi affiora. E quando affiora porta cambiamenti.

Parlavo di espiazione perché la sua scrittura, come immagini ed evocazioni, restituisce spesso un’impressione di ineluttabilità, e penso alle terre cupe di Cielo rosso al mattino come all’orizzonte sconfinato di Oltremare. Gli scenari, gli ambienti, le luci, persino le condizioni atmosferiche della sua scrittura sembrano sempre porte d’accesso all’interiorità: sono paesaggi grotteschi, espressionisti.

I miei libri sono fondamentalmente delle esplorazioni metafisiche. I miei personaggi soffrono e si confrontano con cose enormi, sono pungolati dal mondo e dall’ingiustizia, da poteri esterni che li soverchiano. Gli scenari in cui si muovono rispecchiano sempre questa condizione, devono farlo. Il mio paesaggio rispecchia le leggi del mondo per come devono essere, ma è anche la manifestazione dell’indifferenza della realtà – della natura, potrei dire – alle vicende umane. La realtà nei miei libri è sempre filtrata dallo sguardo dei personaggi: da una parte è oggettiva, ma dall’altra diventa specchio dei loro sentimenti e delle loro paure. I miei personaggi pongono delle domande al paesaggio: spesso però non ottengono risposta.

Oltremare è anche un libro di fantasmi, di ossa dei morti, di apparizioni – nel mare e dal mare, ma soprattutto nella testa dei due naufraghi. C’è ad esempio la visione dei trafficanti, dove realtà e incubo sfumano e si mescolano.

Su visioni e fantasmi, vale il privilegio del dubbio. Tutto il libro, in fondo, è dominato da una parola che è anche un dubbio, o una possibilità: “forse”. Che cos’è il sogno nel naufragio, e cosa la realtà? Il problema di cos’è vero e cosa no è l’assillo principale di Hector, ad esempio. Durante questo tempo inesistente che ho provato a mettere in scena, vita e morte si confondono in continuazione. La situazione dei due protagonisti rispecchia quest’incertezza: sono vivi, ma a tratti è come se non lo fossero, come se stessero aspettando la morte in un’anticamera.

E infine, magari più lateralmente, mi è parso anche un libro con una certa sensibilità ecologica.

La questione dell’ecologia mi interessa molto, ma la esploro da una prospettiva letteraria. Il presupposto è che oggi non esiste più un centimetro di terra che sia incontaminato: l’uomo ha messo le mani ovunque. Anche nell’oceano, anche nella profondità del mare ci sono segni della nostra presenza. L’idea romantica dell’oceano è morta, e quando Hector e Bolivar vedono in cielo la scia di un aereo, o si incagliano in un’isola di spazzatura, per loro è quasi rassicurante. Questo libro per me è stato anche un tentativo di mettere in dubbio il processo incessante della civilizzazione: per farlo, avevo bisogno che il mondo come lo conosciamo noi, e come è raccontato nei romanzi contemporanei, sparisse completamente. Molti scrittori sono ossessionati dall’analisi della società e dei suoi problemi più urgenti: la mia invece è una prospettiva più marginale, è la linea di Conrad, di Wolfe, di Beckett, di Calasso quando sostiene che ci sono problemi che si originano al di fuori della società, e che la società non può risolvere. Ecco, a me interessa ciò che sta al di là della società, ma capisco che non sia un argomento molto di moda.

L’asfissiante unità spazio tempo di una barca

Paul Lynch
Oltremare
ed. orig. 2019, trad. dall’inglese di Riccardo Duranti,
pp. 192, € 16,
66thand2nd, Roma 2022

Cielo rosso al mattinoNeve neraGrace: conoscevamo Paul Lynch per essere uno scrittore di terraferma e di Irlanda, di fughe e inseguimenti attraverso luoghi cupi e paesaggi ostili. Con il suo nuovo romanzo, tratto da un’incredibile storia vera, ci spostiamo d’improvviso nel cuore dell’oceano. Un oceano ostile, che sorprende con una tempesta due pescatori sudamericani durante un’uscita notturna e li trascina alla deriva per giorni, settimane, mesi. Come nel Vecchio marinaio di Coleridge, ma con i cellulari che non prendono e il motore della barca in avaria.

Ogni cosa, in questo libro, accade nei pochi metri quadrati del peschereccio, in una sola e asfissiante unità di spazio. Nei giorni successivi al naufragio, mentre capiscono che non arriverà nessuno a soccorrerli, Bolivar e Hector “misurano entrambi il sorso dellaltro”: sono due uomini schivi, si fanno i dispetti, parlano a stento. Intorno a loro ci sono soltanto acqua e cielo, ma le giornate seguono un ritmo narrativo martellante. Qui s’intravede in Lynch la ricerca di una ricorsività, di uno schema con cui dare struttura all’oblio e modellarlo: gli aerei che passano, i litigi, la contemplazione del mare piatto, i pensieri detti a mezza voce e subito ritrattati. E poi ovviamente c’è la questione della sopravvivenza: la pioggia che riempie le tazze dacqua, la caccia a pesci e uccelli, Hector che conta i giorni scavando righe sullo scafo. Cos’è in fondo la speranza, se non una fiammella? Magari, pensano i naufraghi, riusciranno a vivere in questo modo per sempre: hanno cibo, acqua dolce, il mare è generoso; trovano unalchimia insomma, ma è una placidità apparente, dura poco. Il mare di Lynch è come un sismografo della disperazione dei due protagonisti: presto tornano le onde alte, e con loro la fase onirica, il delirio, l’accettazione della sconfitta; Bolivar che si trastulla con uno “zoo di uccelli” che cattura e a cui spezza le ali, mentre Hector raggiunge un’estasi sfinita, la gioia nel martirio. Rifiuta di mangiare, è “oltre il cibo”, vuole la morte.

Dalla notte del naufragio fino ai momenti topici della loro deriva, Bolivar e Hector attraversano un oceano intero e uninfinita distesa di tempo. Rimuginano, si arrovellano, piangono, si pentono, infine impazziscono. Al centro dell’osservazione che Lynch conduce su di loro ci sono i trascorsi di Bolivar: il mare riporta a galla la sua vergogna, la fuga dalla moglie e dalla figlia, linizio di una nuova vita sgangherata alla ricerca illusoria della libertà perduta. Il nodo del libro, l’espiazione cui Bolivar sembra destinato, sta proprio qui: “Si è allontanato dal senso che aveva”, e ora, non senza un certo fatalismo, ne paga le conseguenze. Il definitivo crollo psichico, quando arriva, è raccontato con l’unica lingua che si può usare per addentrarsi nel delirio onirico, a cavallo tra realtà e incubo: denotativa, piatta, che registra i fatti che diventano sogni, i sogni che prendono la consistenza dei fatti e persino i sogni a scatole cinesi, quelli da cui ti svegli e sei ancora in un altro sogno.

Lynch racconta un terrore purissimo ma distante, difficile all’immedesimazione: cosa si prova in una deriva che dura mesi? Come si elaborano la solitudine, l’abbandono, la morte in un contesto tanto estremo da diventare inconcepibile? Il suo sforzo narrativo, proprio per la straordinarietà del contesto, è quasi la sfida a un paradosso, come mettere in scena gli ultimi istanti di un incidente aereo: cosa si pensa in quegli attimi? Come si elabora lo schianto che arriva? È un mistero. Esattamente come, per Hector e Bolivar, è un mistero isolare dal resto del tempo lultimo attimo di luce che incontra il buio, il passaggio meccanico dal giorno alla notte; cercato per tutta la vita, trovato alla fine del mare.