Józef Czapski – La terra inumana | Libro del Mese

Testimonianze di umanità annientate

di Dario Prola

Józef Czapski
La terra inumana
a cura di Andrea Ceccherelli,
ed. orig. 1949, trad. dal polacco di Andrea Ceccherelli e Tullia Villanova,
pp. 459, € 28, Adelphi, Milano 2023

“Sospirando in silenzio per tutti i perseguitati, / Per i prigionieri e gli esiliati / Per chi giace oggi sulle assi dell’agonia / con gli occhi sbarrati, nella terra disumana…” (Stanisław Baliński, febbraio 1941). Il destino dei libri è strano e segue traiettorie difficili da prevedersi. Alcuni passano innosservati, per poi rivelare la loro carica dirompente solo dopo molti anni di elaborazione; altri emanano la loro essenza subito, ma la perdono in tempi altrettanto rapidi; altri ancora, per quanto indiscutibilmente figli della propria epoca, resistono alla prova del tempo e ne travalicano i confini rivelando significati e prospettive in contesti storico-politici diversi, per quanto – constatiamolo pure con amarezza – forse non troppo diversi. È questo il caso del più importante libro di Józef Czapski, opera figlia delle tragiche esperienze del secolo breve oggi tornata di straordinaria attualità. La nieludzka ziemia del titolo (terra disumana, o inumana come hanno preferito gli autori della bella traduzione italiana) – rievocazione del poco noto verso in epigrafe del poeta Stanisław Baliński – altro non è che la Russia sovietica, percorsa in lungo e in largo da Czapski in qualità di ufficiale dell’esercito polacco a partire dall’autunno del 1941 fino all’evacuazione in Iran nell’aprile dell’anno successivo. Lo scrittore e pittore potè godere di una straordinaria congiuntura favorevole in seguito all’accordo per cui, dopo la sorprendente invasione nazista dell’Urss, polacchi e russi facevano fronte comune, loro malgrado, contro il terzo Reich. Tuttavia non era il piacere o la curiosità di visitare un paese nel quale ancora si coglievano tracce del mondo prerivoluzionario a spingere Czapski, quanto la ferrea determinazione di fare luce sul destino delle migliaia di ufficiali polacchi che, dopo l’“amnistia” concessa ai prigionieri di guerra, non si presentavano nei punti di arruolamento del resuscitato esercito affidato al generale Anders. Il lettore è così coinvolto in una drammatica inchiesta che lo trascina nei gironi infernali del sistema totalitario sovietico, un mondo che – come ben sappiamo dalla lettura di Šalamov, Solženicyn ed Herling – funzionava reggendosi sullo sfruttamento schiavista delle masse di lavoratori “emancipate” dal comunismo, sulla corruzione a ogni livello del sistema statale e sull’uso capillare e metodico della menzogna. La verità sull’assassinio, avvenuto nel 1940, di circa 15.000 ufficiali e sottoufficiali polacchi internati nei campi di prigionia di Kozel’sk, Starobil’s’k e Ostaškov, com’è noto, venne portata alla luce dall’esercito tedesco nel 1943, in seguito alla scoperta di gigantesche fosse comuni nei boschi presso Smolensk (quegli stessi boschi dove il 10 aprile del 2010 si è schiantato il Tupolev Tu-154 con la delegazione governativa polacca diretta sul luogo per rendere omaggio alle vittime del massacro di Katyn’). La verità su uno dei più spregevoli crimini staliniani venne ammessa dalle autorità sovietiche soltanto nel 1990, con tanto di parziale condivisione di documenti d’archivio e scuse del presidente Boris El’cin due anni più tardi. Ora, va precisato che i quadri dell’esercito polacco liquidati dal Nkvd erano per lo più composti da riservisti (scienziati, medici, ingegneri, avvocati, insegnanti, dipendenti pubblici), ovvero dai membri di quella classe intellettuale che incarnava i principi dell’idea di nazione, principale ostacolo sulla strada dell’imperialismo russo-sovietico. Per questa ragione – per la volontà e la progettualità dello sterminio – i polacchi, in virtù di un decreto del parlamento, definiscono questo crimine come un genocidio.

Józef Czapski, che sfuggì alla sorte toccata ai compagni d’arme grazie all’intervento di conoscenze influenti (lo scoprì solo grazie alla lettura dei suddetti documenti), scrisse questo libro in condizioni diverse dal 1942 al 1947, integrando gli appunti presi a caldo in Unione Sovietica con quanto gli restituivano i ricordi. Un lavoro che intraprese non solo per senso del dovere, per restituire alla verità e alla memoria il destino del fiore del proprio paese e della propria generazione, ma anche per portare testimonianza della Russia sovietica e della Russia tout court, paese che conosceva molto bene (essendo originario della Bielorussia aveva frequentato le scuole diplomandosi a Pietroburgo). A questo proposito va messo in evidenza che il libro di Czapski non è un libro contro la Russia, la cui cultura (letteraria in primis) lasciò un solco profondo nella sua scrittura e nella sua formazione intellettuale. La sua è infatti una denuncia contro un mondo dove “l’uomo non conta nulla” in nome non solo delle innumerevoli vittime e famiglie di deportati polacchi, ma di tutti coloro – russi soprattutto – che Czapski incontra lungo il proprio cammino raccogliendo le drammatiche testimonianze di umanità annientate, così drammaticamente stridenti con l’entusiastica approvazione di chi dal sistema sovietico aveva avuto tutto e credeva – in piena coscienza – nell’infallibilità di Stalin e nella sacralità del potere da lui emanato. È proprio questa dicotomia, il ritratto di queste due Russie che emerge dalla testimonianza di Czapski: il mondo dei controllori e dei controllati, delle vittime e degli aguzzini, il ritratto di un sistema che aveva “addestrato le persone alla crudeltà disumana, all’ubbidienza cieca, a eseguire i compiti a prezzo del sangue e a dispetto di tutto ciò che all’uomo è caro, alla delazione obbligatoria”. Una Russia così abissalmente differente da quella prerivoluzionaria dove “in ogni vicolo, in ogni stazione, in ogni locanda o vagone di treno si potevano incontrare persone, fossero intellettuali o analfabeti, che si interrogavano su tutto, comprese le questioni ultime”.

Nella sua drammatica peregrinazione che lo porta dall’Ucraina alla Russia del nord, dalla regione del Volga all’Uzbekistan, senza tralasciare Mosca, per non lasciarsi sopraffare dalla disperazione Czapski si aggrappa a quegli scampoli di umanità e di bontà di cui era ancora capace il generoso popolo russo, cercando nel contempo conforto e una speranza per il futuro nelle appassionate conversazioni con quegli intellettuali che ancora manifestavano una genuina fame di poesia e di cultura. Memorabili sono le serate letterarie a casa di Aleksej Tolstoj a Taškent, dove Czapski declamava e traduceva i versi di Słonimski, Baliński, Norwid per una commossa Anna Achmatova, arrivando addirittura ad accarezzare con i colleghi russi l’idea di comporre un’antologia di poesie polacche scritte durante la guerra in corso. Ricordi testimonianza di una Russia ancora viva e dialogante, e della profonda convergenza di ideali e di valori che anima la cultura europea. Convergenze, punti di incontro, che non gli concedono tuttavia il lusso di illudersi sulla natura del potere sovietico e “della tragica antinomia che oppone la Polonia e la Russia, le nostre concezioni della vita, i nostri percorsi storici”. Come scrive il curatore nella sua Postfazione: “Czapski coglie sin dalla Premessa l’antinomia fra l’idea russa – autocratica – e l’idea polacca – democratica, fino all’anarchia”, una riflessione che rimanda alla più pura tradizione del romanticismo polacco.

Edito nel 1949 a Parigi dalla casa editrice polacca dell’emigrazione Instytut Literacki, La terra inumana fu tradotto nello stesso anno in francese, nel 1951 in inglese, nel 1967 in tedesco, mentre in Polonia circolava fino al 1989 solo in edizioni clandestine (il suo autore era bandito dal regime). Finalmente disponibile in italiano, il libro getta il lettore nella geènna del sistema stalinista, mondo dove dietro la cortina fumogena dell’apparente fiducia nella rivoluzione si cela un paese povero, impaurito e oppresso da profonde diseguaglianze sociali. Testimonianza di una realtà già compiutamente orwelliana (l’autore della Fattoria degli animali fu uno dei primi nel 1944 a restare impressionato dalla testimonianza di Czapski contenuta nel libro Wspomnienia starobielskie), il libro di Czapski porta al centro del dibattito una domanda che arrovellava l’autore ottant’anni fa e ritorna oggi con tutta la sua urgenza: quella sulla natura e sul destino della Russia.

dario.prola@unito.it
D. Prola insegna lingua e letteratura polacca all’Università di Torino

 

Pittore, scrittore, pacifista ed esule

di Krystyna Jaworska

Józef Czapski rappresenta una delle più suggestive e affascinanti figure di intellettuale dell’Europa centro-orientale e si contraddistingue per il suo profondo umanesimo e pacifismo, per la sua conoscenza non solo della cultura occidentale, in particolare di quella francese, ma anche di quella russa. Di origine aristocratica, nato a Praga nel 1896 da padre polacco e madre austriaca, cresciuto nella tenuta paterna in Bielorussia, appassionato in gioventù da scrittori e pensatori quali Lev Tolstoj, Vladimir Solov’ëv, Vasilij Rozanov, Dmitrij Merežkovskij, Czapski aveva avuto modo di approfondire il loro pensiero durante gli anni di studio liceale e universitario trascorsi a Pietroburgo e interrotti dallo scoppio della rivoluzione.

Ricostituito lo stato polacco, nel 1920 si presentò volontario nell’esercito, specificando che non avrebbe però preso parte a azioni belliche per via delle sue convinzioni pacifiste. Ricevette così l’incarico di cercare i prigionieri di guerra polacchi in Russia. Nel 1921 riprese gli studi (iniziati nel 1918 a Varsavia) all’Accademia di belle arti di Cracovia. Trascorse gli anni 1924-1931 a Parigi dedicandosi alla pittura, attività che continuò dopo il rientro in patria, stabilendosi a Varsavia e partecipando alla vita artistica e intellettuale della capitale. Richiamato alle armi con lo scoppio della guerra, nel 1939 fu internato dai sovietici nel campo di concentramento di Starobel’sk (l’attuale Starobil’s’k) in Ucraina. Fu tra i pochi prigionieri che alcuni mesi dopo l’arresto furono trasferiti da Starobel’sk a Grjazovec, nella Russia occidentale, e grazie a ciò scamparono all’eccidio di Katyn’. Il generale Anders, comandante (dopo essere stato liberato dal carcere della Lubianka) dell’armata polacca formata in Urss nel 1941, gli affidò la ricerca delle migliaia di ufficiali polacchi deportati dai sovietici e di cui si era persa traccia, e poi, nel 1942, la guida del Reparto cultura e stampa. La scelta di mettere a capo della propaganda militare di un esercito composto da ex deportati un pacifista è alquanto significativa: da una parte manifestava la stima per la levatura intellettuale di Czapski, dall’altra la consapevolezza dell’importanza che la cultura rivestiva per quanti avevano visto la loro dignità umana calpestata nei gulag.

Una volta lasciata l’Urss, Czapski descrisse il periodo della sua prigionia in un prezioso libretto, Wspomnienia Starobielskie (Ricordi di Starobielsk), edito dal Reparto cultura e stampa e tradotto anche in italiano. Dopo la battaglia di Montecassino, a cui il 2° Corpo d’armata polacco prese parte a fianco degli alleati, Czapski ricevette dal comando militare la direzione dell’ufficio Cultura a Parigi. La sua presenza nella capitale francese facilitò nel 1947 il trasferimento in Francia della casa editrice Instytut Literacki, creata a Roma nel 1946 dal 2° Corpo d’armata polacco prima della smobilitazione, e della sua rivista “Kultura”, fondata da Jerzy Giedroyc e dallo scrittore Gustaw Herling. In quanto testimone dei crimini sovietici, a Czapski era precluso il ritorno in Polonia. Visse esule nella casa dove aveva sede la casa editrice, assieme alla sorella Maria, letterata e scrittrice, e alla redazione di “Kultura”, a Maisons-Laffitte, vicino a Parigi, dando vita a un singolare falansterio alla cui attività si deve la pubblicazione di alcune delle più importanti opere della letteratura polacca del secondo Novecento, vietate dalla censura in patria. Czapski fu tra i più stretti collaboratori e sostenitori della rivista (nel 1948 vi pubblicò Proust contre la déchéance. Conférences au camp de Griazowietz, tradotto in italiano nel 2005 da L’ancora del mediterraneo con il titolo La morte indifferente: Proust nel gulag, e riproposto da Adelphi nel 2015 con il titolo Proust a Grjazovec) come pure della casa editrice, per i cui tipi nel 1949 uscì il volume Nanieludzkiej ziemi, ora tradotto in italiano con il titolo La terra inumana. Continuò la sua attività di pittore, come pure quella di saggista, scrivendo di arte e di letteratura. Molti suoi scritti sono stati raccolti in volume, di particolare rilevanza le raccolte Oko (1960) e Tumult i widma (1981). Morì a Maisons-Laffitte nel 1993. Al pari di altri scrittori esuli, subì un doppio ostracismo: vietato in patria e ignorato dalle élite intellettuali occidentali che soggiacevano al fascino del comunismo. Solo dopo il crollo del blocco sovietico, la diffusione e la conoscenza delle sue opere è notevolmente cresciuta, non solo in Polonia, dove procede la pubblicazione dei suoi scritti, dei diari e dei carteggi, preziosissimi per capire l’autore e il suo ambiente, ma anche a livello internazionale, come testimonia la monografia di Eric Karpeles, Almost Nothing: The 20th-Century Art and Life of Józef Czapski edita nel 2018.

krystyna.jaworska@unito.it
K. Jaworska insegna lingua e letteratura polacca all’Università di Torino