La letteratura degli italiani in Chiapas

Dall’epica solidale all’utopia ribelle

di Simone Ferrari

Il primo gennaio 1994 la battaglia di San Cristóbal de Las Casas (Messico) sanciva l’avvio dell’ultima rivoluzione d’America, condotta dalle popolazioni indigene maya e contadine del Chiapas contro il governo messicano. A trent’anni di distanza dall’insurrezione zapatista, il crepuscolo mediatico del mito del subcomandante Marcos non ha influito sull’interesse suscitato dal tema in alcune produzioni narrative italiane, i cui autori si configurano come osservatori o partecipi, in varie forme e gradi, della ribellione chiapaneca.

I consolidati legami tra Italia e Ezln (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale) affondano le loro radici nell’attività di sostegno politico, culturale ed economico dello zapatismo da parte di diversi centri sociali della penisola, oltre che da sporadici afflati solidali da parte di gruppi parlamentari di sinistra radicale, istituzioni pubbliche e società private. Le relazioni italo-zapatiste sono esplorate in lingua italiana in volumi saggistici quali 20zln a cura di Andrea Cegna e Alberto di Monte e, più di recente, Le donne di X’oyep. Tali traiettorie di solidarietà intercontinentale hanno ispirato molteplici proposte narrative di autrici e autori italiani, intuitivamente distinguibili in due tendenze letterarie: i diari di viaggio degli italiani in Chiapas e i cosiddetti romanzi dello zapatismo.

La prima corrente, più florida e capillare, include le memorie letterarie di alcuni dei numerosi italiani che a partire dagli anni novanta hanno attraversato l’Atlantico per operare da osservatori internazionali – la presenza di attori europei funzionava da strumento di tutela dei diritti umani delle popolazioni maya ribelli – o per partecipare stabilmente, in diverse vesti, all’esperienza zapatista. In questo senso, le testimonianze narrative di artisti, medici o attivisti restituiscono i tratti vividi e le percezioni ambientali di un’esperienza solidale vissuta, al contempo, come punto di fuga e come vendetta del possibile. Tra le opere primigenie, in questa direzione, le memorabili Cartoline zapatiste. In viaggio con Marcos e con la 99 Posse (a cura di Ermanno Guarnieri) di Luca”Zulù” Persico, voce e volto dei celebri 99 Posse (Feltrinelli, 2002): lo storico cantante del gruppo napoletano affronta in una narrazione pungente e impavida la sua esperienza di accompagnatore dell’esercito zapatista nella storica marcia del 2001 a Città del Messico. In una fine autocritica delle ambigue aspettative verso l’altro, i diari di Zulù raccontano la necessità di “farsi indios del mondo”. Il taglio ironico dell’opera questiona la solennità comunicativa del Subcomandante Marcos, in una rivendicazione narrativa dei valori della disobbedienza politica radicale, anche nei confronti dell’eccessivo militarismo delle prassi quotidiane dell’ Ezln.

La seduzione nei confronti dell’alterità chiapaneca, disegnata come ultima utopia viva davanti al crollo dei sogni egualitari dell’Occidente, attraversa in modalità più canoniche le memorie narrative di opere quali Dal Chiapas (quasi) un diario (2012), di Salvatore Inguì, assistente sociale e referente di Libera, o il più recente Diario di un gringo zapatista dell’attivista Carlo De Pascalis: i due testi rappresentano il paradigma di una scrittura solidale in cui il resoconto del viaggio diviene sforzo di mediazione culturale nei confronti delle terre e le genti del Messico ribelle, non privo di slanci antropologici – talvolta temerari – sulle tradizioni spirituali e politiche delle società maya di Chiapas.

Un episodio inconsueto è offerto da Eternamente straniero. Un medico napoletano nella Selva Lacandona (2018) di Cippi Martinelli. Chirurgo e ricercatore napoletano trasferitosi in Chiapas nei mesi della ribellione del 1994, Martinelli testimonia, in una prosa verace e contundente, la sua esperienza pluridecennale nelle foreste del Messico meridionale – dove assume il ruolo di responsabile delle politiche di salute di alcuni villaggi zapatisti. La particolare finezza formale del testo restituisce una storia di incontro con il mondo chiapaneco attraverso le dimensioni del corpo e della cura. Nell’opera di Martinelli i volti dei ribelli, celati dai passamontagna, parlano attraverso gli occhi, feritoie della storia e ridotti spiragli del sapere millenario maya. Senza pretenderne una comprensione integrale, il racconto offre le sue scene più vivide nelle memorie degli interventi curativi del protagonista verso i pazienti indigeni, dove la tecnica chirurgica europea si affaccia alla dimensione rituale e collettiva della medicina territoriale maya. Allo stesso tempo, il volume improvvisa nuovi archi diegetici attraverso la riscrittura di una delle celebri fiabe del Subcomandante Marcos, in uno stratagemma narrativo che permette al protagonista di definire le spigolose complessità nel posizionamento dell’attore solidale europeo nelle terre della resistenza indigena messicana, nelle quali non può che configurarsi in una condizione di eterno straniero.

Il secondo filone della produzione narrativa italiana sulle vicende di Chiapas è ascrivibile al cosiddetto “romanzo dello zapatismo”. La studiosa belga Kristine Vanden Berghe propone la categoria per inquadrare uno specifico insieme di testualità di diversa matrice (romanzi, poesie, graphic novel) che contribuiscono a costruire l’immagine letteraria dello zapatismo. Nel caso italiano, pur se caratterizzate da un approccio non mimetico, tali opere presentano generalmente diversi gradi di aderenza all’esperienza biografica di attivismo solidale degli autori nelle terre del Sud del Messico.

Tale corrente, meno rigogliosa ma non priva di operazioni letterarie intriganti, ha trovato una prima impresa valorosa nel graphic novel Come il colore della terra, dove i testi di Marco Gastoni dialogano con le tavole in pastello di Nicola Gobbi. Il libro narra la storia di una famiglia zapatista che affronta un attacco militare dell’esercito messicano in un villaggio della Selva Lacandona. Attraverso le voci di diversi narratori – tra cui una donna maya di cui è possibile scorgere soltanto gli occhi – e gli affettuosi scambi di idee tra i giovani fratelli José e Juana, l’opera mette in dialogo le tinte militariste del conflitto in Chiapas con le chiavi di lettura offerte dalla dimensione mitico-onirica dei saperi indigeni locali. La peculiare matrice della narratrice principale, i cui movimenti interdiegetici le consentono continue incursioni corporee nella trama, configura un carattere di invisibilità che evoca in chiave narratologica un’assenza che si fa voce, riassumibile nel celebre lemma zapatista: “Ci copriamo affinché ci vedano”.

In questa chiave narrativa, la recente pubblicazione I pirati della selva (Red Star Press, 2023), romanzo storico dello scrittore e regista documentarista Mario Balsamo, offre una nuova irradiazione letteraria italiana sull’insurrezione chiapaneca. La peculiare struttura temporale del libro, dislocato tra diversi decenni del XX secolo, ambisce a intessere le istanze popolari di diverse epoche della storia contemporanea del Messico, in un avanzamento circolare che richiama le percezioni non lineari della temporalità maya. Nel romanzo di Balsamo il contesto – la ribellione dell’Ezln – si fa protagonista: attorno all’insurrezione zapatista si sviluppa una cornice narrativa di personaggi storici (il Subcomandante Marcos, Emiliano Zapata, il vescovo Samuel Ruiz, tra gli altri) i cui dialoghi si contorcono nella tormenta dell’eterno ritorno della lotta per la terra. È proprio la metafora della tormenta, ricorrente, a condurre la narrazione in spazi di sospensione del verosimile, dove il mito si fa storia e la parola zapatista si fa profezia. La mediazione tra l’autore e le voci storiche del Chiapas è offerta dal personaggio di Fabiola, attivista italiana sedotta dall’insurrezione del 1994. Silente e analitica, la figura di Fabiola agisce come affresco narrativo delle barriere di significato tra la solidarietà europea e la resistenza indigena. Il suo metaforico naufragio nella Selva Lacandona, viaggio iniziatico verso una terra promessa, la rende osservatrice non partecipe della ribellione, orecchio ma non voce, almeno fino al catartico dialogo finale con Marcos: lo scambio di battute con il Subcomandante condensa le tensioni permanenti di una produzione narrativa, quella degli italiani sul Chiapas insorto, la cui più grande sfida rimane quella di liberarsi dal ventriloquismo della parola autonoma zapatista, la cui letterarietà verbale ha garantito l’autonomia discorsiva a una rivoluzione senza tempo.

simone.ferrari1@unimi.it
S. Ferrari insegna civiltà precolombiane all’Università Statale di Milano