Le immagini, la violenza, la lingua popolare e l’ultimo romanzo di Ron Rash

Il paesaggio come destino

Intervista a Ron Rash di Marco Petrelli

Lei si definisce uno scrittore del Sud anche se in passato si è lamentato del pregiudizio con il quale questa letteratura viene accolta al di fuori della regione. Che ruolo occupa la letteratura del Sud all’interno della tradizione americana oggi?

Sono molto orgoglioso di far parte di questa tradizione, ma negli Stati Uniti (al contrario di altri paesi) spesso vieni considerato “solo” uno scrittore del Sud. Non mi piace essere classificato semplicemente come uno scrittore regionalista: perché nessuno dice mai questa cosa degli autori di New York? Prendi William Faulkner e Flannery O’ Connor: quello che li ha resi dei grandi scrittori è stata la capacità di avere una risonanza universale pur concentrandosi su un luogo ben circoscritto. Sto generalizzando ovviamente, ma penso che il motivo per il quale gli autori del Sud hanno suscitato tanto interesse in Europa, ad esempio, sia il loro profondo coinvolgimento con la storia. Prendiamo Walt Whitman, l’idea del nuovo Adamo, l’ottimismo di un’America che può ricominciare da zero. Non credo che questa visione appartenga agli scrittori del Sud. Pensiamo a un suo contemporaneo come Edgar Allan Poe, all’attenzione che presta agli aspetti più oscuri dell’umanità. Pensiamo a Faulkner ovviamente, un autore con un profondo senso della storia. Mi sembra un atteggiamento più vicino all’Europa, più vicino alla realtà del mondo, a essere onesti. Non possiamo fuggire dalla storia, e penso che uno dei temi centrali della letteratura del Sud sia proprio l’impossibilità di dimenticare la storia, di fuggire dal passato. L’America continua a fuggire dal passato: è successo dopo la guerra in Afghanistan, è successo dopo la guerra del Vietnam.

La sua opera è spesso caratterizzata da una certa violenza. La violenza è parte integrante del mito americano così come lo sono le sue supposte qualità rigenerative. Sul tema però non è stato influenzato solo da scrittori americani: ha parlato spesso di Delitto e castigo come di un libro fondamentale per lei. Quale approccio alla violenza, alla punizione e alla redenzione adotta nel suo lavoro?

Delitto e castigo ha avuto una grandissima influenza su di me. Ho letto quel libro quando avevo quindici anni e mi ha cambiato la vita. Flannery O’ Connor diceva che i personaggi si rivelano davvero solo quando vengono messi in situazioni estreme. È esattamente questa rivelazione che cerco io, non gioco con la violenza per farne una specie di pornografia. Purtroppo, l’America è una nazione violenta. Penso che mettere in luce questo aspetto sia parte del mio dovere di scrittore. In fondo, la letteratura onesta non fa che rispecchiare la vita reale: le situazioni estreme ci insegnano chi siamo veramente e chi sono veramente le altre persone. C’è senza dubbio un rapporto tra violenza, rivelazione e redenzione, ma non voglio assolutamente dare l’impressione che la violenza abbia necessariamente degli aspetti redentivi. In La terra d’ombra, ad esempio, non c’è alcuna redenzione. Tutta la violenza accumulata nel romanzo, alla fine è priva di senso, come la prima guerra mondiale che fa da sfondo alla vicenda.

Qualche anno fa Chris Offutt ha dichiarato che la sua opera è anche un modo di mantenere viva la cultura degli Appalachi, di utilizzare la narrativa come operazione di salvataggio nei confronti di una cultura che sta scomparendo. Mi sembra di rintracciare questa volizione anche nei suoi romanzi. È d’accordo?

Sì, senza dubbio. Un piede in paradiso è la resurrezione simbolica di una cultura letteralmente sommersa, il tentativo di tenerla in vita. È uno sforzo al quale mi sono dedicato, e parte di questo ha a che vedere con il linguaggio. Quando scrivo sono sempre attento alla lingua popolare, in particolare ai dialetti degli Appalachi, che trovo davvero interessanti. Lo stereotipo li vuole molto volgari, primitivi, ma in realtà sono estremamente metaforici, pieni di similitudini audaci. Devi avere una certa intelligenza per dar forma a una similitudine efficace. Faccio sempre questo esempio: avrò avuto quindici o sedici anni ed ero con mio zio, una persona dall’istruzione modesta, un contadino. Camminavamo per le strade di un paesino e si accorse che stavo guardando una ragazza, avrà avuto diciotto o diciannove anni e sembrava una studentessa universitaria. Era estate ed era vestita in modo succinto, con dei pantaloncini molto corti. Lo zio mi guardò e disse: “Con i vestiti di quella manco ci carichi un fucile”. C’è del genio in un’espressione come questa, una specie di poesia. Allo stesso tempo però non voglio romanticizzare troppo la cultura degli Appalachi. Spero di essere riuscito a mostrarne anche gli aspetti più bui, più distruttivi. È un obiettivo importante per me e credo che lo sia stato per molti altri scrittori del Sud. Credo che Faulkner avesse delle intenzioni simili: voleva dipingere una cultura che stava scomparendo senza però tralasciarne i lati più oscuri.

In una vecchia intervista ha fatto un’affermazione che trovo estremamente affascinante: “Il paesaggio è destino”. La sua scrittura possiede chiaramente un forte senso del luogo, è come posseduta da un genius loci. Come intreccia trama e ambientazione nella sua opera?

Mettere in dialogo trama e ambientazione è un altro degli obiettivi dei miei libri e di La terra d’ombra più di tutti. Ho pensato che fosse interessante spingere all’estremo l’idea che il paesaggio rappresenti una sorta di destino. Laurel è letteralmente soffocata dalle montagne che incombono su di lei. Come ho cercato di mostrare in altri romanzi, le montagne possono anche trasformarsi in una sorta di grembo, ti proteggono, tengono lontani i pericoli del mondo esterno. Ma in La terra d’ombra sono un memento costante della caducità umana. È una questione fisiologica: fra le montagne spesso c’è poca luce e ho notato come questo abbia indotto in mio padre, mia madre e anche in me stesso una certa propensione al fatalismo, una rassegnazione che credo caratterizzi molti abitanti degli Appalachi. È questo che intendo quando dico che il paesaggio è destino. Credo che questa sensazione mi permetta anche di entrare in connessione con altri autori al di fuori della regione. Tomasi di Lampedusa, ad esempio. Il modo in cui utilizza il paesaggio siciliano nel Gattopardo assomiglia al modo in cui cerco di sfruttarlo nella mia scrittura. Jean Giono lavora allo stesso modo, e anche Mo Yan in Sorgo rosso. È interessante vedere come scrittori così diversi siano mossi da una poetica comune. Ho sempre trattato il paesaggio come un personaggio principale, inestricabile dagli altri personaggi. Nel mio secondo romanzo, Saints at the River, è il fiume a essere il protagonista.

Raising the Dead e Un piede in paradiso presentano la stessa storia (e addirittura gli stessi personaggi) attraverso due forme letterarie distinte: poesia e narrativa. Non era soddisfatto del modo in cui aveva raccontato la storia in poesia? Aveva bisogno di più spazio? Mi sembra che alcuni dei suoi personaggi non vogliano abbandonarla, come in Serena e nel racconto In the Valley...

Alcuni personaggi mi perseguitano, non mi lasciano in pace. Penso di aver intrapreso quel progetto perché sono tanto un poeta quanto un autore di romanzi. È come comporre una sinfonia e un’opera lirica sullo stesso argomento: volevo che la raccolta di poesie e il romanzo si parlassero, lavorassero insieme alla creazione di un tutto organico. The Passenger e Stella Maris (gli ultimi romanzi di Cormac McCarthy) li ho trovati molto interessanti. Come si incastrano queste due opere? In un certo senso non lo fanno, ma riecheggiano l’una nell’altra. Pensavo che sarebbe stato interessante per i lettori avere due esperienze molto differenti ma che entrano in risonanza. Mi piace pensare al mio lavoro come a una trapunta fatta di pezze eterogenee ma tutte cucite tra di loro. Ho imparato molto da Faulkner, dalla sua volontà di combinare i suoi romanzi in un’unica grande opera.

Ha affermato che l’ispirazione per le sue storie proviene spesso da una singola immagine. Anche Faulkner rilasciò una simile dichiarazione riguardo a L’urlo e il furore.

Ciascuno dei romanzi che ho scritto è iniziato con un’immagine. Faccio un esempio. Un giorno stavo guidando tra le montagne e all’improvviso, non so da dove sia saltata fuori, ho avuto la visione di una donna a cavallo. Dal portamento si capiva che era molto sicura di sé, aveva una postura solenne. Non so perché, ma ebbi la sensazione che qualcuno la stesse osservando con un misto di amore e paura. Era come una fotografia che si sviluppava pian piano nella mia mente. Poi, dopo aver fatto delle ricerche sulla storia delle Smoky Mountains, scrissi Serena e quell’immagine si trova esattamente a metà del romanzo. È così che lavoro, non pianifico nulla e non abbozzo le mie trame in anticipo. Ho avuto un’esperienza simile quando ho scritto Un piede in paradiso. Pensai che tutta la storia sarebbe stata raccontata da Billy e così la scrissi la prima volta, salvo rendermi conto che mancava qualcosa. Allora aggiunsi la moglie, ma mancava ancora qualcosa: lo sceriffo. Sarebbe stato lo sceriffo a portarci in questa valle e a condurcene fuori alla fine del romanzo. È quello che ha fatto Faulkner in L’urlo e il furore: all’inizio non pensava di dover raccontare la storia attraverso cinque punti di vista differenti. È una delle cose che trovo affascinanti nello scrivere: hai un’immagine e non sai dove ti porterà, speri solo che ti conduca da qualche parte. Quando ho un’immagine mi piace pensare che contenga già in sé tutto il romanzo.

Lei è anche un professore universitario, ma so che ha una certa animosità nei confronti della teoria della letteratura. Come mai?

Quand’ero all’università ho letto molta teoria: Foucault, Lacan, Derrida… Non voglio assolutamente dire che non abbia valore, ma quello che mi inquieta nella teoria della letteratura statunitense contemporanea è l’approccio puritano che spesso la caratterizza. Perché nessuno parla del fatto che la letteratura può essere un piacere? Devi sempre trovare il significato di ogni cosa, deve sempre esserci un insegnamento. Per me è come bere olio di ricino. A volte quando insegno mi sento come se stessi dissezionando una rana. Ai miei studenti dico sempre: “Per prima cosa godetevi il libro, poi parleremo del resto”. James Dickey, un grande poeta, ha detto che la letteratura è un piacere complicato. Mi piace molto questa affermazione. Quando leggi Faulkner o Joyce devi impegnarti seriamente, ma il piacere che ne trai è impareggiabile. Mi sembra che nella teoria della letteratura non ci sia spazio per il piacere. Si tratta di generalizzazioni, ma penso che spesso ci si dimentichi del puro piacere della lettura. Ovviamente la letteratura ci insegna delle cose sulla vita, impartisce delle lezioni molto difficili. Non è un caso che tanta letteratura viri verso la tragedia, ma c’è un piacere anche nell’oscurità. La bellezza di opere come The Passenger, Assalonne, Assalonne!, Le immagini, la violenza, la lingua popolare e l’ultimo romanzo di Ron Rash è che soffermarci sugli aspetti più cupi della vita ci ricorda che non siamo soli.

La lirica appassionata degli Appalachi

Ron Rash
La terra d’ombra
ed. orig. 2012, trad. dall’inglese di Tommaso Pincio,
pp. 256, € 18,
La Nuova Frontiera, Roma 2022

In una valle rigogliosa, ma perennemente ammantata di ombre, si intrecciano i destini dei fratelli Laurel e Hank e del misterioso Walter, un vagabondo dal passato oscuro. I due fratelli vivono separati dalla vicina comunità, marchiati dallo stigma di essere maledetti come la terra che coltivano con fatica e dedizione. A sconvolgere la routine, di mesta ma orgogliosamente ostinata rassegnazione che caratterizza la vita di questi paria vittime della superstizione popolare, arriva Walter: un uomo incapace di parlare e ridotto quasi in fin di vita da uno sciame di calabroni che si esprime però attraverso la musica celestiale del suo flauto d’argento, con il quale sembra parlare alla natura selvaggia della valle. In Ron Rash si scopre forse il più lirico, appassionato cantore dei monti Appalachi dopo il Cormac McCarthy degli esordi. L’autore divide i propri sforzi artistici tra poesia e narrativa, senza però considerare questi ambiti come impermeabili, ma lasciando piuttosto che le due anime della sua scrittura confluiscano l’una nell’altra grazie alla musa comune dalla quale traggono ispirazione: l’umanità e le storie che popolano gli angoli più remoti delle montagne del Sud, una regione tuttora ammantata dall’aura mitica che caratterizza l’America profonda. La scrittura di Rash si aggrappa al territorio muovendosi tra anfratti, fiumi e valli con l’occhio attento di un pittore attratto dai dettagli più minuziosi. Grazie alla forza di un linguaggio concreto, vicino alla natura e alle piccole vite precarie che la abitano, e al tono malinconicamente elegiaco che lo caratterizza anche nei passaggi più duri, l’autore riesce a ottenere una saldatura organica tra spazio e personaggi, tra l’imponenza sublime del paesaggio e le profondità spesso oscure dell’animo umano, dando forma a un tessuto narrativo denso e ininterrotto. La terra d’ombra è un affresco potente nel quale i ritmi e le pulsioni di una società dimenticata risuonano dei toni gravi, ma universali, della tragedia.