Margaret Cavendish icona del (proto)femminismo occidentale

I discorsi arguti e gli innocenti passatempi di MadMadge

di Giuseppe Sertoli

Mad Madge, “Meg la pazza”, sembra la chiamassero i londinesi quando la vedevano passare in carrozza scortata da lacché in divise di velluto e, se le circostanze lo richiedevano, con un seguito di gentiluomini e damigelle a reggerle lo strascico di un abito, da lei stessa disegnato, poco meno che regale. I ragazzini accorrevano ad ammirare le sue fastose e stravaganti acconciature, delle quali lei andava fierissima perché se c’era qualcosa che detestava era l’ordinarietà: “Mi adopero per essere massimamente singolare, poiché l’imitazione non denota altro che una natura volgare”. Adulata per il suo rango sociale, dietro le spalle era però derisa non solo per le sue eccentricità – di abiti, comportamento e linguaggio –, ma più ancora per le sue velleità intellettuali. “La povera donna è certamente fuori di testa” commentò Lady Osborne dopo aver sfogliato un suo volume di Poems and Fancies (1653) – il primo di una ventina di tomi pubblicati, con tanto di nome sul frontespizio (cosa inaudita a quel tempo per una donna), nell’arco di altrettanti anni –, rincarando poi la dose: “in manicomio ci sono molte persone più sane di mente di lei. È tutta colpa dei suoi amici che la lasciano fare”. Quasi trecento anni dopo, Virginia Woolf non sarebbe stata più comprensiva, paragonando la sua opera a separare un gigantesco, mostruoso cetriolo che avesse soffocato “fino a ucciderli” tutti i garofani e le rose di un giardino. Fuor di metafora: “Torrenti di versi e di prosa congelati in volumi in quarto e in folio che nessuno legge”, “scribacchiature senza senso” che la fecero “sprofondare sempre più nell’oscurità e nella follia”. Se solo ci fosse stato qualcuno a “insegnarle”, a “contenerla”…

E tuttavia questa povera pazza, che non potendo “conquistare il mondo come Alessandro o Cesare” avrebbe voluto almeno passare alla storia come “Margaret the First”, è l’autrice da trent’anni più studiata, discussa e commentata della letteratura inglese early modern. Un’autentica, seppure controversa, icona nella storia della scrittura femminile e del (proto)femminismo occidentale.

Nata in una famiglia di piccola nobiltà provinciale di granitica fede monarchica, a vent’anni Margaret Lucas (1623-1673) diventa damigella d’onore della regina Henrietta Maria, moglie di Carlo I, seguendola nell’esilio francese quando le sorti della corona incominciarono a precipitare. A Parigi conosce William Cavendish marchese (poi duca) di Newcastle (1593-1676), già istitutore del principe di Galles e generale (sconfitto) dell’esercito realista, di trent’anni maggiore di lei, e lo sposa trasferendosi con lui in Olanda e stabilendosi ad Anversa, per rientrare in Inghilterra solo all’inizio della Restaurazione. Uomo di vasta e cosmopolita cultura, lui stesso autore di (modeste) pièce teatrali, William Cavendish – di cui Margaret scriverà una affettuosa e un po’ agiografica biografia – non fu solo un marito devoto, ma un convinto ammiratore dell’ingegno della moglie, un suo instancabile supporter e il finanziatore di tutte le sue opere. Opere debordanti nella loro incontrollata prolificità: dalla poesia alla filosofia, dalla narrativa alla scienza, dal teatro alla storia e alla politica… Una produzione a suo modo mostruosa, dettata da un furor scribendi – lei che ignorava la corretta grafia delle parole ed era talmente timida che in pubblico non osava aprire bocca – di cui si servì per costruirsi un’identità immaginaria in sostituzione, o meglio a compensazione e rivalsa, della sua identità reale. Se da piccola aveva sognato di diventare una principessa, da grande è come imperatrice che si mette in scena nella sua opera più nota e da sempre più letta: quella Description of a New World, called The Blazing World (1666) di cui Maria Grazia Nicolosi ha recentemente curato la prima traduzione italiana, Il mondo sfavillante, corredandola di un’ampia ed esauriente introduzione.

Pubblicato come seconda parte di un volume di “filosofia naturale” (Observations upon Experimental Philosophy), Il mondo sfavillante combina il genere del viaggio immaginario alla Cyrano de Bergerac (e altri autori coevi, tutti debitori della Storia vera di Luciano) e quello dell’utopia scientifica sulla falsariga della Nuova Atlantide di Bacone. La storia narra di una fanciulla che viene rapita da un innamorato impaziente, ma la “piccola imbarcazione” impiegata allo scopo è sospinta dai venti verso il Polo Nord: tutti i membri dell’equipaggio muoiono assiderati e solo lei – smentita vivente della teoria aristotelico-galenica sul deficit termico delle donne – resiste impavida. La salvano strane creature mezze animali e mezze esseri umani (uomini-orso, uomini-volpe, uomini-scimmia eccetera) che abitano un mondo contiguo a quello terrestre e con esso comunicante attraverso un canale “fra pareti di ghiaccio” che unisce i rispettivi poli. Accolta con l’ossequio che spetta a un essere soprannaturale, quasi una dea, la fanciulla è accompagnata nella capitale di quel “nuovo mondo”, una città tutta d’oro i cui abitanti hanno forma umana e carnagione multicolore, e presentata all’imperatore, che vive in un palazzo sfavillante di pietre preziose e, innamoratosi di lei, la sposa cedendole ipso facto il governo del paese. Un paese che è un vero proprio Eden monarchico (Paradiso è infatti il suo nome) retto “come fosse una singola famiglia” da un sovrano assoluto di diritto divino. Un sovrano, una religione, una lingua – e poche leggi perché “molte leggi sono causa di molte discordie” –: il regime ideale affinché sudditi “obbedienti e leali” vivano in una condizione di “pace e felicità perpetua”. Un patriarcato, insomma (tra Hobbes e Filmer), che si ribalta in matriarcato – facendo del Mondo sfavillante la prima utopia femminista della letteratura inglese – a gratificazione dell’io di Margaret Cavendish e, per suo tramite, di quello delle sue lettrici. Un matriarcato, tuttavia, nel quale il potere autocratico dell’imperatrice non si estende a quello delle altre donne, che seguitano a essere escluse dal potere in quanto “comunemente cause di disordine nella Chiesa e nello Stato”. Non è questa l’unica contraddizione del femminismo di Margaret Cavendish, tanto esplicita e perfino brutale nel denunciare la condizione delle donne –“siamo come uccelli tenuti in gabbia che zampettano su e giù per la casa senza che mai ci sia concesso di uscire e spiccare il volo”; “siamo come vermi che vivono nella torpida terra dell’ignoranza” e solo a volte riescono a “strisciare in superficie grazie a una spruzzata di buona educazione”; “siamo stupide come le bestie, che sono un gradino appena sotto di noi, e gli uomini ci trattano come se fossimo un gradino appena sopra le bestie” –, quanto poco incline a stimare, nel suo complesso, il genere femminile (a meno che si tratti di donne come lei e le sue amiche).

Nella figura dell’imperatrice Margaret Cavendish non proietta però soltanto le sue fantasie politiche scopertamente revansciste e nazionaliste, anzi (profeticamente) imperialiste: vedi, nella seconda parte del libro, lo sperticato elogio di Carlo II, i cui sudditi “sono il popolo più felice di tutte le nazioni”, e la decisione dell’imperatrice di intervenire, alla testa di un esercito dotato di armi futuribili, in difesa del suo paese d’origine (palesemente l’Inghilterra) attaccato da nemici (l’Olanda, con cui l’Inghilterra era a quel tempo in guerra) che vengono prevedibilmente sbaragliati e costretti a sottomettersi pagando tributo, sicché da quel momento in poi la monarchia inglese deterrà “l’autorità suprema su tutto il mondo [terrestre]”. Nella figura dell’imperatrice Margaret Cavendish proietta anche le sue ambizioni intellettuali, il sogno cioè di esercitare un potere attraverso l’appropriazione di quel sapere che da sempre è stato prerogativa degli uomini. Nel novembre del 1667 la duchessa di Newcastle sarebbe stata ricevuta in visita dalla Royal Society: visita – naturalmente in pompa magna – dovuta alla sua posizione sociale assai più che ai suoi libri di filosofia naturale, anche se ci sono pochi dubbi che in ben altra forma lei avrebbe voluto essere accolta in quel consesso. Ed ecco allora che nel Mondo sfavillante si mette in scena nei panni dell’imperatrice che fonda istituzioni scientifiche e accademie, interloquisce con astronomi chimici medici matematici geometri e quanti altri, e se non è soddisfatta delle loro spiegazioni non esita a contestarli e addirittura a licenziarli. Sono pagine, queste, che se da un lato rimandano alle precedenti Observations upon Experimental Philosophy (i riscontri sono puntuali), dall’altro lato rifanno il verso alla babele di ipotesi, teorie, esperimenti, ricerche non di rado futili e inconcludenti promosse dalla Royal Society: quelle stesse che mezzo secolo dopo Swift avrebbe parodiato nelle elucubrazioni degli accademici di Lagado nei Viaggi di Gulliver. In tal modo Margaret Cavendish si prendeva la rivincita nei confronti di quel mondo di dotti che la omaggiavano per il suo rango ma pervicacemente ignoravano i suoi – tanto volenterosi quanto dilettanteschi – contributi filosofici e scientifici.

Aver costruito un avatar utopico di sé stessa nella figura dell’imperatrice non era però sufficiente: Margaret Cavendish voleva anche mettersi in scena direttamente, col suo vero nome e la sua vera identità. Ed ecco allora che a un certo punto l’imperatrice, presa dalla smania di comporre “una Cabala”, chiede ai suoi consiglieri chi possa farle da scrivano: forse qualche spirito magno dell’antichità o dei tempi moderni, che so, Aristotele o Platone, Hobbes o Cartesio?… Difficilmente però quei grandi avrebbero accettato un simile impiego, sicché i consiglieri le suggeriscono un nome alternativo: quello… della duchessa di Newcastle! Assicurandola che “malgrado non sia annoverata fra i pensatori più sapienti, eloquenti, sagaci e competenti, è per lo meno una scrittrice sobria e razionale”. Detto fatto: l’anima della duchessa è immediatamente convocata e fra le due donne si stabilisce un tale rapporto di amicizia che diventano “amanti platoniche”. Insieme visiteranno, in ispirito e dunque invisibili, il mondo di provenienza della duchessa (verosimilmente lo stesso di quello dell’imperatrice, anche se il testo – e non è la sua unica incongruenza – sembra dire a volte il contrario) e in quell’occasione l’imperatrice avrà modo di conoscere il marito della duchessa, restandone talmente “incantata” che la sua anima, seguendo quella dell’amica, entrerà nel corpo del duca e insieme le tre anime, innamorate l’una dell’altra, si intratterranno in “discorsi arguti, svaghi piacevoli e ogni sorta di innocenti passatempi”.

Scopertamente apologetica, questa autorappresentazione serve a Margaret Cavendish per giustificarsi su più fronti: ambizione, eccentricità, velleità autoriali, ma soprattutto quel matto e disperatissimo “studio delle cause e degli effetti dei fenomeni naturali” che l’ha convinta, lei autodidatta, ad accantonare tutti i precedenti sistemi filosofico-scientifici, dai numeri di Pitagora ai vortici di Cartesio, per creare un suo proprio sistema fondato sui sensi e sulla ragione (sense and reason, non “intelletto e ragione”, come sempre traduce la curatrice) e così “ben ordinato e governato” da procurarle un “inesprimibile diletto”. La ragione però non esclude la fantasia, anzi è complementare a essa, e chi – come lei – le detiene entrambe sarà in grado di creare interi universi immateriali popolati da creature immateriali dotate di forme, colori e movimenti da cui trarre “tutto il piacere e la gioia” che un “mondo d’invenzione” può offrire. Quel piacere e quella gioia, impossibile dubitarne, che Margaret Cavendish dovette trarre dalla composizione di un’opera ibrida (androgina) nella quale una serie di “osservazioni sulla filosofia sperimentale” si accompagna alla “descrizione di un mondo sfavillante”. Lo stesso piacere e la stessa gioia che nella conclusione del libro lei promette alle sue lettrici, anzi a tutte le donne che, non potendo essere padrone del mondo reale (o, come l’imperatrice, essere trasportate in una surrealtà utopica), vorranno crearsi un loro mondo immaginario nel quale sentirsi – ed essere – sovrane. Consolatoria, una simile promessa? Forse sì. Ma che altro poteva fare, nel suo tempo e nella sua società, la duchessa di Newcastle, se non invitare ogni donna a costruirsi, “entro i confini della [sua]testa”, un altro mondo abitato da un’altra sé stessa – in attesa del giorno in cui quei confini sarebbero (forse) spariti?

giuseppe.sertoli670@gmail.com
G. Sertoli è professore emerito di letteratura inglese all’Università di Genova