Percival Everett – Cancellazione

La sveglia di cui abbiamo bisogno

di Federica Fugazzotto

Percival Everett
Cancellazione
ed. orig. 2001, trad. dall’inglese di Marco Bosonetto,
pp. 407, € 22,
La nave di Teseo, Milano 2024

Thelonious Ellison, detto Monk, è nero e scrive libri. Si potrebbe pensare che questi due semplici fatti bastino a qualificarlo come scrittore nero, ma la questione è un po’ più complicata. Fin dagli esordi, Monk fatica a trovare la sua dimensione nel panorama letterario contemporaneo perché i suoi libri sono “troppo bianchi”. Cresciuto a Washington in una famiglia colta e benestante, autore di rielaborazioni di Euripide e parodie del poststrutturalismo francese, l’intera esistenza di Ellison è un affronto al cliché dell’autore afroamericano politicamente impegnato che racconta la “vita nera in tutta la sua durezza”. Monk è troppo intellettualmente onesto per appropriarsi di esperienze a lui estranee e non ha conosciuto la violenza di strada e la povertà. Fingersi portavoce di una lotta che non ha combattuto per appagare gli appetiti morbosi di un pubblico che è interessato alle questioni razziali solo quando rafforzano i propri ancestrali stereotipi sulle minoranze equivarrebbe per lui a vendere l’anima al diavolo (se non fosse ateo, si capisce): “Io non credo alla razza. Credo che esistano persone capaci di spararmi, di impiccarmi, di imbrogliarmi, o di danneggiarmi perché credono alla razza”.

Questa è la premessa da cui prende avvio Cancellazione, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2001 e la cui prima traduzione italiana è riproposta ora da La nave di Teseo in coincidenza con la vittoria dell’Oscar alla miglior sceneggiatura del film American Fiction, ispirato appunto al romanzo. Percival Everett è una delle voci più influenti e lucide della letteratura contemporanea americana: schivo quasi quanto il suo personaggio, avverso a qualunque tipo di luogo comune e banalizzazione, Everett è un maestro nella dissacrazione di cliché. Cancellazione, da molti considerato il suo capolavoro, ne è un esempio perfetto. Quando Monk decide di scrivere, sotto pseudonimo, un romanzo che raccolga in sé tutti gli stereotipi sulla cosiddetta “esperienza nera”, creando un romanzo disonesto, gratuitamente volgare e violento e privo di alcun valore letterario, la sua speranza è infatti quella di mettere a nudo la viscida ipocrisia di un mondo editoriale che ha sacrificato la promozione dell’arte e della cultura sull’altare del capitalismo. Quello che nemmeno Monk avrebbe mai potuto prevedere è che il romanzo sarebbe stato osannato da editor, critica, pubblico e persino produttori cinematografici. Diviso dal disgusto per la sua creazione e il bisogno di soldi per prendersi cura della madre malata, Monk decide di approfittare della situazione per portare avanti la messa in scena e scoprire se esiste un punto di ritorno o se siamo destinati a cadere sempre più a fondo nel baratro della pseudoletteratura usa e getta. Mentre leggiamo Cancellazione assumiamo il punto di vista di Monk ed è facile per noi solidarizzare con la sua battaglia e divertirci alle spalle delle ignare vittime della sua provocazione, ma pagina dopo pagina una domanda comincia a fare capolino nella nostra mente: siamo davvero i lettori consapevoli e animati da spirito critico che pensiamo di essere? Alla coscienza di ognuno di noi l’ardua sentenza.

Cancellazione è un romanzo complesso e stratificato, la cui linea narrativa principale si snoda in infiniti spunti di riflessione, citazioni ed esperimenti metaletterari. Tuttavia, grazie all’assoluta naturalezza e maestria con cui Everett naviga tra generi e forme diversi, la lettura non risulta mai inaccessibile ma, al contrario, provocatoria e stimolante. Ciò che forse colpisce maggiormente nel leggere questo romanzo nel 2024 è la sua feroce attualità: guardando al panorama politico-culturale odierno non solo non sembrano essere stati fatti progressi ma la situazione pare addirittura peggiorata. Anestetizzati da decenni di pratiche “culturali” discutibili, la mano di Percival Everett che ci scuote violentemente è la sveglia di cui abbiamo un estremo bisogno.

federica.fugazzotto@gmail.com
F. Fugazzotto è studiosa di letteratura angloamericana

American Fiction di Cord Jefferson

di Matteo Pollone

Che la vicenda narrata in Cancellazione sia ancora oggi attuale lo si può intuire fin da poche righe di sinossi. Ma è proprio questa attualità inequivocabile a rendere complesso adattare, oggi, un testo tagliente e lucido come quello di Percival Everett, troppo spietato nei confronti di un mondo culturale che nel corso degli anni non ha certo cambiato rotta. Il fatto che l’ipocrisia e il white guilt del mondo editoriale americano che lo scrittore metteva a fuoco nel romanzo del 2001 passino oggi soprattutto dal cinema e dagli audiovisivi avrebbe potuto facilmente consentire all’autore di American Fiction (Cord Jefferson, regista e sceneggiatore del film) di estendere la componente autoriflessiva del romanzo anche al cinema. Ciò accade soprattutto nei minuti finali, durante i quali ci si prende gioco di alcuni cliché del cinema hollywoodiano in un divertente gioco metadiscorsivo. Non ci si spinge mai, però, alla parodia esplicita del black cinema, nonostante il bersaglio principale di Everett, il romanzo Push (1996) di Sapphire (pseudonimo di Ramona Lofton), sia diventato, nel 2009, un film di successo, Precious di Lee Daniels, con molti premi all’attivo (tra cui due Oscar) e un’altissima considerazione critica.

Sul piano narrativo, American Fiction rinuncia all’estrema frammentazione del romanzo, strutturato in una serie di brevi paragrafi spesso non direttamente connessi tra loro; rinuncia anche, come è ovvio, a sviscerare completamente il racconto-nel-racconto, quello del libro che Monk scrive, My Pafology, presente nella sua interezza in Cancellazione e qui limitato a uno scambio di battute tra l’autore e i suoi personaggi nel momento della stesura del testo. Al di là dell’inevitabile scelta di uno svolgimento più convenzionale (il film è pur sempre distribuito dalla piattaforma Amazon Prime), American Fiction si rapporta alla fonte anche smussandone i toni. Nonostante qualche scena divertente (in particolare la prima), il film risulta meno spassoso del romanzo, e al contempo meno cupo, eliminando i picchi più tragici o potenzialmente controversi del soggetto, come la causa della morte della sorella del protagonista o l’angoscioso finale, qui completamente riscritto.

American Fiction è, in sostanza, una traduzione inoffensiva di Cancellazione, segno inequivocabile di come le dinamiche messe in luce da Everett regolino oggi tutto il mercato culturale statunitense, che accetta di ridere di sé stesso fino a un certo punto. Anche chi non avesse letto il romanzo può intuire come il film sia frutto di una mediazione tra lo spirito dissacratorio di Everett e le cautele dell’industria cinematografica odierna. Basterà citare un piccolo esempio: nel momento in cui Monk pronuncia, al telefono con il suo agente, la battuta “Non credo alla razza”, un taxi lo supera nonostante abbia il braccio alzato, e poco oltre si ferma a caricare due persone bianche, smentendo immediatamente le parole del protagonista. Se il romanzo è narrato in prima persona (e Monk, scrittore e docente universitario, è di fatto un alter ego di Everett), qui il punto di vista dell’autore non è sovrapponibile a quello del personaggio, e si fa garante, al di là degli intenti parodici, della tutela delle “nuove sensibilità” di Hollywood. La posizione stessa del lettore, complice dell’inganno perpetrato dallo scrittore e allo stesso tempo anch’egli bersaglio della sua satira, perde, con la trasposizione, ogni ambiguità. Trascinato dalla maiuscola performance di Jeffrey Wright, il pubblico si trova a seguire soprattutto la vicenda non nuova di una crisi personale e di una famiglia disfunzionale, pienamente conforme alle coordinate di un certo cinema indipendente americano, intimista e agrodolce. Del resto, però, quest’enfasi sulla dimensione privata dei personaggi non fa che confermare l’assunto del romanzo di Everett: non tutte le storie degli afroamericani sono caratterizzate dalla povertà, dagli scenari degradati dei ghetti e dalla violenza di strada. Quasi come se American Fiction, a oltre vent’anni di distanza dal libro che lo ha ispirato, volesse proporsi non tanto come un adattamento, quanto come un aggiornamento o una risposta.

matteo.pollone@uniupo.it
M. Pollone insegna storia e critica del cinema all’Università del Piemonte Orientale