Un profilo di Jamaica Kincaid

Con una madre tracotante, bellicosa e puritana

di Massimiliano Catoni

“Odio la tirannia. È meglio essere morti che avere intorno persone che ti costringono a fare cose che sono una violazione” ha dichiarato in un’intervista Jamaica Kincaid (Elaine Potter Richardson, il suo nome). Trovo imperdonabilmente sciocco qualsiasi tentativo di rendere la letteratura indipendente dalla vita. L’arte – va da sé – è elaborazione, e dunque trasfigurazione. Il monito dei formalisti è lettera morta. Del resto, che farsene di teorie e astrazioni? La cittadella di Beckett, con i suoi ospiti derelitti, artritici sdentati, mutilati bercianti, tutti nichilisti della peggior specie, non allude intenzionalmente all’abominio dei campi di concentramento. Beckett soffriva il suo corpo malandato, che percepiva come una soverchiante carrozzeria ammaccata – a dispetto dell’esemplare magrezza – appesa alle ossa. Non meno soverchiante era il suo disfattismo, che sublimò in un ghigno clownesco. L’assurdo di Camus, che lo stesso Camus, in un secondo momento, addomesticò volgendolo in un’idea edificante, aveva le sue radici nelle pene di un ragazzo che a causa della tubercolosi era andato vicino a lasciarci le penne.

Kincaid, in tal senso, non hai mai eretto uno scudo a difesa della sua vicenda biografica. Al contrario, nelle occasioni in cui è stata sollecitata a riferire le circostanze che hanno favorito la sua partenza da Antigua, e il conseguente approdo negli Stati Uniti (1965), si è diffusa con singolare schiettezza (e fermezza e rudezza) sul tiranno da cui ha dovuto difendersi, con il quale non ha mai smesso di battagliare, subendone le intemerate persino in età matura, ovvero la persona più autorevole che si possa immaginare: la madre. Non c’è pagina che Kincaid abbia partorito che non veda incombere su di sé il fantasma bellicoso di Annie Drew, una donna superba e collerica incapace di entrare in relazione con la figlia se non in modo tracotante. Kincaid ha circostanziato le ragioni del suo odio con l’ostinazione di chi è in cerca di una verità su sé stesso. Lo ha fatto appellandosi alla sprezzatura, coltivando una scrittura tanto ossessiva quanto austera. La sua prosa smaltata evoca la severa lezione degli stilisti alla Flaubert. Non sorprende che sia un’ingorda lettrice di autori che hanno anteposto i rovelli formali alle gioie dell’intrattenimento: Nabokov, Duras, Bernhard. “A me la trama non interessa (…) Fin dall’inizio sono stata quel tipo di scrittore non perché imitassi volutamente qualcuno, ma perché mi veniva naturale scrivere così”. Scrivere – chiarisce – ha a che fare “con l’inconscio, col mistero, con ciò che non sappiamo” (Sandra Petrignani, Incontro con Jamaica Kincaid, “Il Foglio” 15 novembre 2014). Perché generalizzare? Il mistero da cui Kincaid si sente più coinvolta è quello che la riguarda in prima persona. La sola alterità con cui ha necessità di stabilire una dialettica è sé stessa. Il punto è provare a esorcizzare la rabbia che avvampa nel cuore.

In Bambina, il brevissimo racconto che apre il suo libro di esordio, In fondo al fiume (1978), in un’unica frase, scandita con discrezione da una manciata di punti e virgola, Kincaid condensa una serie di imperativi che risuonano come tanti pugni ben assestati sul capo della protagonista; l’imputazione principale è squillante come una scomunica: “La domenica cerca di camminare come una signora e non come quella zoccola che vuoi diventare…”. Ma è nel libro successivo, Annie John (1985), che l’incongruo puritanesimo materno viene restituito nella sua declinazione più ambigua. Alla fine non possiamo non chiederci se l’educazione vessatoria che la madre impartisce alla figlia scaturisca davvero dalla necessità di salvarle la vita (impedendole, per esempio, di avere dieci figli da dieci uomini diversi), e non piuttosto dalla volontà di far valere la sua autorità su chi, in fin dei conti, non considera che una propaggine di sé. Difficile, d’altronde, ammettere che tua madre faccia quello che fa al solo scopo di ribadire il suo dominio su di te.

“Sono arrivata a capire” ha spiegato Kincaid “di aver lavorato, attraverso il rapporto tra madre e figlia, alla relazione tra l’Europa e il posto da cui vengo, che poi è quella che esiste tra chi è potente e chi impotente. La figlia è impotente, la madre potente”. Che si tratti di rapporti fra individui (non necessariamente madre e figlia), o del rapporto fra un individuo e la propria storia, sembra che per Kincaid non ci sia modo di sottrarsi allo schema servo-padrone. Essere alienati significa aver introiettato il punto di vista di chi vorremmo distruggere, il padrone, un simulacro di potere che ci avvince e ci fa disperare, a tal punto sembra aver plasmato la nostra visione delle cose. Per quanto riottosi, i suoi alter ego esprimono la ferocia del mondo coloniale nel quale sono cresciuti, quel retaggio di privazione e assoggettamento da cui non arriveranno mai del tutto a emanciparsi. Le loro spalle, mentre esibiscono una maschera truce, paiono curvarsi sotto il peso della genealogia. Kincaid ha dedicato ad Antigua un livido pamphlet dal titolo Un posto piccolo (1988); l’idea di dare del tu al turista desideroso di sollazzarsi sulla bella isola che per gli indigeni ha le fattezze di un inferno in miniatura le consente un corpo a corpo in cui è maestra, se non altro per la violenza e precisione con cui sa sferrare i suoi colpi. Un’intuizione che tuttavia potrebbe risultare fuorviante per chi legge, poiché induce a credere che il vero interlocutore sia il generico turista bianco ottuso e deprecabile, quando in realtà Kincaid si rivolge con altrettanta rabbia e sgomento agli antiguani, come per sferzarli: l’indolenza che li tiene asserviti al giogo dell’inerzia è la vera dannazione di quel popolo. “Ogni indigeno (…) conduce una vita di sconvolgente e schiacciante banalità, noia, disperazione e depressione”. Avvertiamo in queste parole una profonda e complessa estraneità al mondo appena evocato, e al tempo stesso l’impossibilità di lasciarselo alle spalle. Non c’è via d’uscita. La veemenza con cui Kincaid macina il suo passato non è che un riflesso del risentimento inalato durante l’adolescenza. Questo furore è la sua prigione.

Annie, come Kincaid, ha sperimentato appena dodicenne la cacciata dal paradiso: “Mia madre mi informò che stavo per diventare una signorina (…) Per via di quella faccenda (…) venni spedita a imparare questo e quello”. Ha inizio un duro dressage: corsi di buone maniere, lezioni di piano. E pensare che fin lì la vita era stata un idillio. “Mi accovacciavo dietro la sua schiena e le posavo il mento sulla spalla (…) Come dev’essere brutta la vita per chi non ha nessuno che l’ami così e nessuno da amare così, pensavo”. Adesso che il patto simbiotico è stato unilateralmente infranto, ad Annie non resta che fare i conti con quello che è il destino di una ragazza nata ad Antigua. I pensieri che Kincaid le attribuisce sono gli stessi che occupavano la sua mente di adolescente. Perché una ragazza con uno spiccato senso di sé, un’intelligenza guizzante e presunzione e impudenza da vendere dovrebbe accettare di buon grado di sacrificare la propria libertà per occuparsi della famiglia indigente e dei fratellini bisognosi? Annie non è che la prima incarnazione dell’alter ego kincaidiano. È ancora presto per rivolte e rese dei conti. Infatti il romanzo si chiude con lei su una nave diretta in Europa, dove la madre ha ordinato che vada (l’aspetta un posto da infermiera) per guadagnare abbastanza da aiutare tutti loro, non prima però di aver dato fuoco a tutti i suoi libri.

“Perché nessuno aveva pensato che sarei stata un buon medico o un buon giudice o un buon dirigente?” A parlare qui è Lucy, la protagonista del romanzo omonimo, pubblicato nel 1990. Lucy si trova a raccogliere il testimone da Annie. Ma l’accondiscendenza di un tempo ha lasciato spazio al livore. Alle soglie dei diciannove anni Lucy ha avuto modo di far decantare i suoi sentimenti, maturando un senso di rivalsa che l’ha resa inespugnabile come una fortezza. Eccola appena sbarcata a Manhattan per lavorare come ragazza au pair presso un’agiata famiglia newyorchese. Il paternalismo dei coniugi, progressisti animati da una visione filantropica della società, la esaspera e la mortifica (lei che non si sente generosa e non sopporta la pietà degli altri), non meno della loro biondezza e di quella dei loro figli, tutti pronti a elargire sorrisi come se il mondo fosse un luogo di promesse mantenute. “Ero una giovane donna che veniva dai margini del mondo, e quando avevo lasciato la mia casa mi ero avvolta intorno alle spalle il mantello di una serva”. Il tono sprezzante e la malmostosa fierezza con cui rimastica l’orgoglio ferito sono degni di Julien Sorel.

Lucy, che da tempo non risponde alle lettere della madre, sta per lasciare l’invidiabile appartamento in cui vive, rinunciando allo stipendio che le consentirebbe di pagarsi gli studi, per affrontare gli stenti di una libera esistenza bohémienne. Occorre ricordare che la madre di Kincaid era fuggita in modo avventuroso dalla Dominica, l’isola in cui era nata, per affrancarsi da un padre dispotico, oltre che corrotto. Aveva sedici anni quando sbarcò ad Antigua; la stessa età che aveva Kincaid quando salpò per l’America. A suo modo era stata un’attivista politica, e in ogni caso aveva trasmesso alla figlia il disprezzo per gli inglesi. “Non devi essere così sottomesso da non poter pensare da solo” (“The Paris Review”, Spring 2022) ricorda di averle sentito dire Kincaid. E certo non è un caso se nel romanzo in cui Kincaid ne ha ricostruito l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza, Autobiografia di mia madre (1996), Xuela (il nome dato alla protagonista) sia libera da qualsiasi vincolo familiare, potendo fare esperienza della realtà come meglio crede. Avendo perso la madre appena nata, ed essendo stata consegnata dal padre in un involto alla donna che si occupa dei suoi panni sporchi, Xuela non può che contemplare con terrore il vasto nulla che le si spalanca alle spalle, e quello che ha davanti, entrambi disperanti ma anche gravidi di possibilità. Come se il destino fosse interamente nelle sue mani. Ancora una volta è interessante notare la scelta della persona attraverso cui si svolge il racconto. In questo caso, la prima. Perché, a guardare bene, interrogando la figura (narrativa) della madre Kincaid non fa che interrogare sé stessa, in una specie di sovrapposizione che fin dalle prime parole della voce narrante rende impossibile distinguere l’una dall’altra, nonostante la figlia non sia presente nel romanzo che come autrice. Quando sentiamo confessare a Xuela: “Ogni cosa della mia vita, buona o cattiva, a cui sono inestricabilmente legata è fonte di dolore”, è a Kincaid che pensiamo. A un cuore di bambina che è stato trucidato una volta per tutte, e che si è reso idealmente orfano per ricominciare da capo, forgiandosi un’identità diversa. Un nome nuovo di zecca. Un nuovo colore e taglio di capelli. Una nuova patria in cui dare corpo alle proprie ambizioni. Eccola all’alba della sua vera vita, come fosse nata due volte, davanti a quell’oceano di possibilità che a un tratto le si prospetta davanti, ben sapendo però che “il futuro deve restare capace di far luce sul passato così che nella mia sconfitta possa nascondersi il seme della mia più grande vittoria, così che nella mia vittoria possa germogliare il seme della mia grande vendetta”.

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M. Catoni è editor