Jesmyn Ward – Giù nel cieco mondo

New Orleans, come la città dolente dantesca

di Marco Petrelli

Jesmyn Ward
Giù nel cieco mondo
ed. orig. 2023, trad. dall’inglese di Valentina Daniele,
pp. 263, € 19,
NN, Milano 2023

“Or discendiam qua giù nel cieco mondo”, dice Virgilio a Dante nel canto quarto dell’Inferno, introducendolo al limbo. Qui, le anime prive di peccato ma non toccate dalla grazia divina trascorrono un’eternità di dolorosi sospiri nel desiderio senza speranza di poter un giorno scorgere Dio. Tanto cupa è la sorte di tutti coloro che vissero e morirono al di fuori del Cristianesimo, da far tremare anche “l’altissimo” Virgilio, del resto condannato alla stessa pena dall’inflessibilità della teologia. “Ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi, / non basta, perché non ebber battesmo”, afferma infatti la guida. C’è in questo canto una straordinaria dichiarazione, essenzialmente politica, da parte di Dante, restio a escludere dal cerchio della humanitas quelli che considerava “spiriti magni” in spregio ai dettami della fede che pure abbracciava.

Prendendo le mosse dalla Commedia, ma in una dialettica simbolica sostanzialmente rovesciata, Jesmyn Ward popola il “cieco mondo” in cui ambienta il suo ultimo romanzo – che è il sud degli Stati Uniti prima della guerra civile – di anime condannate alla dannazione in vita: i dodici milioni di africani vittime della tratta atlantica, strappati alle loro terre d’origine e ridotti in schiavitù sul suolo americano. Anche in questo caso non c’è una colpa all’origine della condanna, ma piuttosto l’assenza del battesimo di umanità, sacramento che l’economia schiavista negava alle sue vittime per trasformarle in “utensili parlanti”, nelle parole di Karl Marx. Come insegna la ricca tradizione di studi sociologici e teoria critica che va da Orlando Patterson agli afropessimisti, per divenire tale lo schiavo deve essere spogliato di ogni connotazione umana e ridotto a vero e proprio “morto vivente”, non-uomo e, paradigmaticamente, non-vivo. La linea che divide le persone ridotte in schiavitù dai padroni non è quindi quella che separa libertà e oppressione, ma quella – ben più netta e impermeabile – che distingue i vivi dai defunti. Una linea, quella tra il mondo terreno e l’aldilà, che la narrativa di Ward aveva già attraversato con Canta, spirito, canta (NN, 2017), romanzo dove le condizioni esiziali in cui il razzismo strutturale statunitense ha relegato e continua a relegare gli afroamericani trovano incarnazione metaforica nel personaggio di Richie, fantasma inquieto di un adolescente nero vittima della famigerata prigione-piantagione di Parchman, Mississippi. Un deciso cambio di prospettiva rispetto al solido realismo che aveva caratterizzato i suoi primi due romanzi, La linea del sangue (2008, pubblicato in Italia da NN nel 2020) e Salvare le ossa (2011, da noi per NN nel 2018). Allo stesso tempo però, l’attitudine impietosa dell’autrice nei confronti delle dure verità dell’esperienza afroamericana non è abbandonata, ma piuttosto arricchita attraverso il ricorso al fantastico, che diventa paradossalmente più abile del puro naturalismo nel veicolare l’effettiva magnitudine della sofferenza nera, da sempre soggetto di elezione della penna dell’autrice.

Giù nel cieco mondo prosegue questo stile ibrido in cui realismo e magico convergono nel narrare la storia di Annis, giovane schiava domestica nell’infernale sud antebellum, che viene costretta a incamminarsi in un’ulteriore discesa all’oltretomba dalle dinamiche dell’economia di piantagione. La madre di Annis, donna indomabile dallo spirito guerriero, viene venduta a mercanti di schiavi, e da lì a poco la bambina segue la stessa sorte, iniziando una catabasi che la porterà a discendere all’Orco del profondo Sud, un luogo che nell’immaginario degli schiavi equivaleva al cerchio più profondo dell’inferno in terra nel quale erano imprigionati. La Commedia, che la bambina scopre ascoltando di nascosto le lezioni impartite da un precettore alle figlie del piantatore a cui appartiene, le fornisce un palinsesto sul quale misurare la propria esperienza, un tentativo di trovare eco e significato ai tormenti incessanti della schiavitù. “Il precettore racconta la storia di un uomo, un italiano di tanto tempo fa che scende all’inferno”, dice la protagonista, “le sue parole riecheggiano dentro di me”. La palude stigia si trasforma così nella Great Dismal Swamp, toponimo dagli echi danteschi che indica la “fosca palude” irta di pericoli fra Carolina del Nord e Virginia. La “città dolente” di Dite è trasfigurata in New Orleans, sede di uno dei più fiorenti mercati d’uomini dell’epoca, qui popolata da anime maledette e incatenate, in attesa di essere vendute al miglior offerente.

Ad accompagnare la protagonista in questo viaggio acheronteo, in luogo di Virgilio, gli spiriti del mondo naturale riveriti dai suoi antenati: Aza, spirito dell’aria e della tempesta; “Lei Che Ricorda”, spirito di fuoco e testimone della sofferenza; “Loro Che Prendono e Danno”, la terra che è eterno riposo ma anche rinascita. Entità ambigue e capricciose come solo gli dèi antichi sanno essere, ma proprio per questo più significative come guide di un destino strappato ad Annis e diretto dalle altrettanto imprevedibili volontà dei suoi padroni. Ward ha dichiarato che le era impossibile descrivere l’orrore della schiavitù senza far ricorso a un mondo oltre quello visibile, come ad affermare la necessità dell’immaginazione e della fede nel buio altrimenti senza schiarite qual era la vita delle vittime della piantagione. L’irruzione dell’animismo africano è però probabilmente l’aspetto più problematico di questo romanzo. Giù nel cieco mondo sembra talvolta sfaldarsi sotto il peso della sua stessa immaginazione, tanto che Jennifer Wilson sul “New York Times” ha lamentato come la dimensione metafisica del testo tenda a distrarre i lettori dalla parabola di Annis, con l’effetto di rendere la storia nel suo complesso meno coesa. Un giudizio indubbiamente severo, ma è innegabile come il romanzo dimostri una struttura diegetica episodica, incentrata sulla serie di prove dolorose che la protagonista deve affrontare per uscire dall’inferno della piantagione e riveder le stelle.

Wilson non sembra però cogliere un aspetto di assoluto rilievo, strettamente legato al recupero di una visione premoderna dell’esistenza e un’organizzazione narrativa che resiste a una più classica evoluzione puramente progressiva. Le direttive formali tradizionali del racconto occidentale risultano infatti spesso inefficaci nel descrivere coerentemente le strutture profonde della narrativa nera, la cui estetica fondante è da identificarsi nella volontà di organizzare e rispondere a un’esperienza difficile da incasellare nella linearità delle narrazioni dominanti euroamericane. Se lo schiavo è la rappresentazione di una “immobilità storica”, come scrive Hortense Spillers, un racconto che miri a descrivere e comprendere una tale realtà non può che adagiarsi giocoforza sui solchi sempre uguali di un’esperienza ciclicamente avvolta su sé stessa. Allo stesso modo, la dimensione spirituale del romanzo – caotica e di frequente subordinata ai rovesci dell’immanente – priva il viaggio del sommo poeta del telos cristiano, sospendendo la sorte della protagonista nell’incertezza. Sono quindi ripetizione e fortuità a muovere la storia di Annis, alla quale la “dritta via” della redenzione dantesca è negata dalla condizione statica e immutabile della schiavitù. Ma, come afferma l’anonimo protagonista in Uomo invisibile di Ralph Ellison, “la vita deve essere vissuta, non controllata, e all’umanità si giunge continuando a giocare anche di fronte alla sicura sconfitta”. Non un cammino di salvazione diretto dalla volontà divina quindi, ma uno spietato apprendistato alla condizione umana compiuto nonostante tutto e contro ogni possibilità. Addentrandosi in un Sud interamente simbolico nella sua cruenta concretezza, permeato di tenebre ma anche di rivelazioni spirituali tanto effimere quanto vitali, Ward immortala questa lotta ancora in fieri nei suoi giorni più disperati, attraverso una narrazione che riaccomoda l’epica dantesca ai ritmi tipici del blues, in cui le immani e apparentemente infinite difficoltà quotidiane diventano un testamento alla resistenza di un popolo trascinato attraverso l’inferno, ma che ha sempre trovato nuovi modi di sopravvivere. E ne ha fatto storie e canzoni.

marco.petrelli@unipi.it
M. Petrelli insegna letteratura angloamericana all’Università di Pisa