Bruno Fonzi – Equivoci e malintesi

Dada, Breton, i cubisti:  sono tutti superati!

di Cristina Lanfranco

Bruno Fonzi
Equivoci e malintesi
con un saggio di Massimo Raffaeli,
pp. 446, € 22,
Quodlibet, Macerata 2023

Nel 1975 per la prima volta Einaudi raccoglieva in Equivoci e malintesi i trentatrè racconti scritti da Bruno Fonzi fra il 1942 e il 1974 e già pubblicati sul pannunziano “Il Mondo”. Ora la maceratese Quodlibet ristampa un volume che vale la pena riscoprire sia per la qualità narrativa contenutavi, sia per meglio inquadrare la figura intellettuale di Fonzi che si è mossa fra Roma e Torino e fra diversi campi del lavoro editoriale. Alla scrittura ha infatti affiancato un lavoro di finissimo traduttore, che si è cimentato con le sfide della grande letteratura. Nel 1945 Mondadori gli affida la traduzione di Addio alle armi di Hemingway: sempre sua è la traduzione de La nausea di Sartre, e altre sue traduzioni vale la pena di ricordare, come tutta l’opera teatrale di Eugene O’ Neill e di Arthur Miller, le Memorie di una ragazza perbene di Simone De Beauvoir; ma anche Faulkner, Boswell, Styron, Bergman, Sontag, Singer, Twain, Kimball, Doctorow. Fu stretto collaboratore di Cesare Pavese che lo aveva chiamato all’Einaudi, dove per trent’anni fu consulente editoriale per la letteratura inglese e americana.

I racconti coprono un arco temporale che va dalla fine del secondo conflitto mondiale agli anni settanta, e hanno per lo più come oggetto l’osservazione del singolo alle prese con una realtà sempre sfuggente, che smorza speranze ed entusiasmi e molto concede alle piccole meschinità, all’ipocrisia e a piccoli e grandi sensi di colpa. I racconti di Fonzi sono talvolta ambientati nei luoghi dove l’autore ha per molto tempo vissuto, portato dal proprio lavoro editoriale. Scorrono dunque le piazze e i palazzi di Roma, i viali torinesi, ma anche le campagne marchigiane dove gli sfollati cercano di sfuggire ai fuochi della guerra. Similmente, è portata sulla scena una variegata serie di tipi umani e di classi sociali.

Un tema ricorrente è il ridicolo che le ambizioni, le superbie, i voli pindarici d’ogni maniera subiscono catastroficamente al primo contatto con la realtà. In Un duello sotto il fascismo, il figlio di un gerarca, in licenza per malattia, vive il benessere e la ricchezza familiare consapevole che queste vengono dalla sistematica corruzione del padre, e disinvoltamente si aggira fra locali notturni e organizza gite in bicicletta con gli amici in mezzo alle macerie della città bombardata: mentre pedala, del tutto indifferente alla distruzione che ha intorno, si immagina tornare al fronte e trasformarsi in un eroe di guerra, protagonista di azioni sensazionali; già si immedesima nel ruolo; ma la giornata di questo intemerato guerriero termina in un fienile con l’elefantiaca, scollacciata Pupona, compagna di gita. In I pianti della Liberazione un funzionario ministeriale si dispera davanti alla propria caduta sociale mentre in casa tenta di accendere il fuoco con poco carbone bagnato che si è potuto permettere (“lui, il capodivisione-ispettore Camillo Mastroluongo, dottore in giurisprudenza, commendatore della Corona d’Italia, cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro, ridotto a fare lo sguattero!”): rimane, come fedele all’antico regime, fieramente ostile al nuovo corso, e carico di tutta questa fierezza e di titoli onorifici gira per la città tentando di vendere una sua vecchia giacca che tiene vergognosamente avvolta in un pacco di carta. Mano a mano che il suo peregrinare fra negozi di seconda mano raccoglie scherni e rifiuti, la carta del pacco si strappa, si allenta e rivela il proprio miserabile contenuto: così il rigido involucro da commendatore poco a poco si sfilaccia, e Mastroluongo terminerà la propria giornata in un modo che non sarebbe mai approvato dall’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro.

Così come il pacco che contiene la giacca del commendatore si distrugge un poco per volta, la penna di Fonzi non indica mai al lettore il momento preciso nel quale la sgraziata verità si rivela e le finzioni dei protagonisti si mostrano sotto vivida luce, ma lascia che questa si diffonda poco per volta solo attraverso la descrizione oggettiva di ciò che accade: si veda ad esempio, nel Medico calabrese, come l’improvvisa prosperità di una parrocchia nasca dalla felice intesa fra un curato e una prostituta in caccia di eredità. Spesso emerge la corruzione, e un sistema di privilegi e omertà che coinvolge non solo le classi dirigenti, ma anche una borghesia asfittica e gretta che viene descritta con fulminante cattiveria. Spesso si è definito lo spirito di Fonzi come una distaccata, benevola ironia verso le miserie del mondo: è evidente invece che la sua scrittura è sorretta da una feroce consapevolezza del ridicolo e della povertà umana dei suoi personaggi, che vengono affettati dal suo coltello sottile con la nettezza e quello spirito lievemente sanguinario che si può trovare nel primo Evelyn Waugh. Si veda ad esempio come in uno dei suoi più beffardi racconti, La duchessa di Lautreamont, venga tratteggiato un gruppetto di giovanotti dall’occupazione incerta, con ambizioni da intellettuali però, e che si atteggiano a intelligenza critica della nazione, ma che pur di scroccare un pasto al ristorante fanno coro entusiasta alle poesie di un vecchio conte: il climax crescente delle lodi levate dai tre giovani agli orrendi versi e l’accostamento del nome del conte a quelli della grande poesia francese (“Macché Picabia! Macchè Apollinaire!”, “Un afflato lirico che ricorda Verlaine!”, “Dada, Breton, i cubisti, qui sono tutti superati!”) immerge i presenti in un irrimediabile grottesco, mostrando una rete di relazioni umane fatte di servilismo e ipocrisie. La realtà si mostra ridicola, e miserabili gli umani che vi sono immersi.

La prosa dei racconti si snoda ampia e precisa: molto si è detto di quanto il Fonzi traduttore abbia forgiato il Fonzi narratore, e il suo quarantennale confronto con la migliore letteratura può certo aver contribuito alla costruzione di una lingua precisa, frutto di scelte curate: i lunghi periodi, ricchi di una propria musicalità interna, rinunciano ai facili effetti della retorica, fedelmente invece riproducendo accenti locali, scatti di umore, ruoli sociali e tutti quegli “equivoci e malintesi” sui quali inciampa l’esistenza umana, con esiti insieme comici e drammatici.

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C. Lanfranco è italianista