Dolce vita, frivolezza e filosofia. Una conversazione con Ilaria Gaspari

intervista a cura di Beatrice Sciarrillo

Ilaria Gaspari
La reputazione
pp. 304, € 19
Guanda, Milano 2024

La reputazione è il nuovo romanzo edito da Guanda di Ilaria Gaspari, scrittrice e giornalista. Nel 2015 è uscito per Voland il suo primo libro, Etica dell’acquario, a cui è seguito per Sonzogno Ragioni e sentimenti. Per Einaudi ha pubblicato Lezioni di felicità, Vita segreta delle emozioni e Cenerentole e sorellastre.
Barbara, protagonista e voce narrante di La reputazione, è nata a Milano e, ventisettenne, si trasferisce a Roma per amore, o meglio, per colui che ritiene essere l’uomo della sua vita, un certo Marcello, conosciuto in campeggio. Come Ilaria Gaspari, Barbara è una studentessa di filosofia, ma, per mancanza di sicurezza nelle proprie capacità, indugia nella stesura di una tesi sul concetto di corpo in Husserl. Per far fronte alle spese del bugigattolo che ha preso in affitto, Barbara lavora dapprima come babysitter, poi come commessa presso Joséphine, lussuosa boutique dei Parioli, gestita dalla signora Marie-France. Siamo negli anni Ottanta: Roma non è più la città della Dolce vita, ma nei testimoni delle notti magiche di via Veneto quell’epoca è indelebile. I locali aperti tutta la notte, i flash dei paparazzi sui motorini e le foto delle dive e dei divi, il giorno dopo, sul giornale: tutte memorie preziose per Marie-France che, emigrata dalla Francia, arrivò a Roma proprio a metà degli anni Sessanta. Il suo negozio è rinomato, frequentato dall’élite aristocratica: mogli degli avvocati, medici, notai più ricchi della città. In negozio, capita anche qualche uomo che, con un’assoluta nonchalance, acquista, qualche volta, un capo per la consorte, altre volte, per l’amante. Ormai Marie-France è una donna anziana, ma molto bella e piena di fascino. Sola in una città senza amici, Barbara si aggrappa a lei, ai suoi consigli e ai suoi insegnamenti, illudendosi che l’apprendistato da Josephine possa dotarla di quella forma di cui si sente priva. 

Chi è Marie-France?

Marie-France è una donna che ha molto sofferto, la cui bellezza è stata sia una fortuna, perché le ha permesso di vivere delle avventure e di allontanarsi dalla provincia in cui è nata, ma anche una maledizione, perché le ha avvicinato uomini che l’hanno trattata come una donna da mostrare. Inoltre, vive nella convinzione che la decadenza della bellezza sia la fine di tutto. 

Perché Barbara è così attratta da lei? 

Perché, in fondo, Marie-France è lei stessa una ragazza, perché è inconsapevole delle sue potenzialità, come lo sono tante ragazze. Lei crede di essere solo una donna molto bella, in realtà il suo fascino ha a che fare anche con la sua anima di artista che ha saputo trasformare la sofferenza in “perle”.

Per te è un personaggio realistico? 

Sì, anche se ho pensato ad alcune eroine letterarie. Una è Zia Mame di Patrick Dennis perché, come Marie-France, è una donna dotata di un’immaginazione ipertrofica in un mondo ancora maschile; l’altra è Miss Havisham di Grandi speranze, un personaggio che io amo molto. Entrambe sono terrorizzate dal tempo che passa e dall’impossibilità di far durare un momento di speranza per sempre. Se questo terrore per Miss Havisham diventa distruttivo e la rende una donna crudele, per Marie-France invece è il motore che la porta ad aiutare le ragazze.

Marie-France crede alla bellezza perché ha paura della morte?

Sì, anche se, alla fine, tutti abbiamo paura della morte, una paura normalissima e diffusissima che, però, secondo me, nasconde paure di annientamento molto più radicali, che hanno a che fare con il non essere riconosciuti, non essere visti, fondamentali con il non essere amati. Sembra molto più grave morire che non essere amati, ma mi viene il sospetto che in realtà sia il contrario: che ci annulli di più la mancanza di riconoscimento come persone piuttosto che la morte. 

In una presentazione con Paolo di Paolo a Libri come, hai detto che la scrittura di questo libro è stata anche un modo per rivendicare la tua frivolezza. 

Sono tantissimi anni che desidero scrivere un libro come questo. Una cosa che non amo della cultura contemporanea è questa sorta di pregiudizio verso la leggerezza, a volte invocata per motivi commerciali, però in realtà disprezzata profondamente, come se, in qualche modo, l’avventura intellettuale dovesse essere punitiva. Io invece provo una grande gioia nelle avventure intellettuali: scrivere, leggere, capire, conoscere. A me piace molto scrivere narrativa di invenzione, prendermi uno spazio e divertirmi.

Questa condanna della leggerezza e frivolezza c’è sempre stata in letteratura?

Secondo me sì. Per esempio, io penso sempre a Mary McCarthy, la migliore amica di Hannah Arendt: scrittrice brillante o Truman Capote, uno scrittore totalmente dedito al frivolo e al mondano, ma nello stesso tempo di una profondità unica. Per lui è stato più semplice ottenere il riconoscimento di grande scrittore per un motivo che sappiamo tutti, ovvero perché è un uomo. 

Siamo negli anni delle autofiction, spesso incentrate su tematiche, come il corpo o la malattia, trattate in maniera dolente e perturbante. Credi che la letteratura abbia più difficoltà a mettere in scena l’umorismo?

Sì, credo proprio di sì e, in questo pregiudizio della serietà come negazione del divertimento, spesso perdiamo di vista che tanti dei grandi romanzi sono molto divertenti. Quando ho lavorato al podcast su Proust (Chez Proust, Emons 2022), un dettaglio che tornava tantissimo, anche quando intervistavo suoi studiosi, è che La ricerca del tempo perduto è un romanzo molto divertente, pieno di aspetti buffi, che raccontano i tic delle persone, certe stramberie psicologiche. Proust era un istrione, uno che faceva le imitazioni, faceva morire dal ridere tutti. Siccome è un romanzo sublime, viene associato a una forma di serietà austera. Secondo me, questo pregiudizio fa solo del male, perché porta scrittrici e scrittori ad assumere pose pensose e negative, quando in realtà chi legge ha il diritto di divertirsi. 

Dunque, il divertimento in letteratura non equivale alla mancata riflessione sui grandi temi della vita. Nel tuo libro è centrale quello della relazione con il proprio corpo. In che rapporti è Barbara con il suo?

Barbara è una ragazza molto insicura, che trascorre tanto tempo a cercare sé stessa e che avverte il bisogno di disegnare un perimetro del suo corpo. Sta scrivendo una tesi sul concetto di corpo nella filosofia di Husserl e, da studentessa, pensa di poter capire il corpo partendo dalla teoria, ragionando sul concetto astratto, ma, nel corso del romanzo, scoprirà che la teoria non le servirà fino a quando lei stessa non avrà fatto esperienza vera delle cose. Il suo apprendistato nel negozio le darà uno spazio da occupare. 

Barbara rimane però come imprigionata nella sua indeterminatezza.

Sì, per me era molto importante dare a Barbara un ruolo così complicato dal punto di vista etico. Mi è dispiaciuta farla finire così ma era necessario. Spesso nei libri, forse per contiguità con la scrittura di serie tv, si tende a risolvere tutto.

Il viaggio dell’eroina…

Sì, è questo non fa bene i libri, perché i libri che piacciono a me ti lasciano con tante domande e con il desiderio di averne ancora. Secondo me, un buon libro ti deve lasciare un po’ di curiosità, un po’ di fame. Non devi uscirne satollo, ma con quella sensazione malinconica del distacco. 

È la stessa sensazione di nostalgia distaccata che provano i personaggi del tuo romanzo?

Sì, volevo lasciare al lettore una forma di struggimento, che è più vicino alla vita, perché la vita non è il viaggio dell’eroina, è fatto di rimpianti che si addolciscono nel tempo. I libri che amo di più sono quelli che ti danno la sensazione di un qualcosa che accade nella vita ma rimane indefinibile, e questo è uno dei motivi per cui amo Proust. 

Esportando in Italia un’abitudine già solida in Francia, Marie-France apre le porte del suo negozio alle ragazzine, inaugurando una linea per adolescenti. Nei sabati pomeriggio, cominciano ad arrivare sciami di ragazzine ricche, che parlottano, si danno di gomito, sfilano di fronte ai camerini, masticando Brooklyn al limone. Di fronte a queste ragazzine, Barbara, ormai adulta, riflette come, di quell’epoca, le rimangano solo ricordi sfocati e su come si sia dimenticata del proprio corpo adolescente. L’adolescenza è un’età che non si ricorda, o che non si vuole ricordare?

Questa fatica di Barbara di pensarsi adolescente è una cosa che ho preso da me. Io faccio molta fatica a pensare alla mia adolescenza, che non è stata un’età infelice, ma che io non vivrei mai più. Siccome essere adolescenti è come attraversare un fiume, quando arrivi dall’altra parte, come tutte le grandi sfide della vita, poi ti dimentichi un po’ com’eri tu, perché è come se fossi stata rivoltata da quello che ti è successo, dal passaggio, dal cambiamento stesso. Quindi tornare indietro con il pensiero diventa strano, non hai più le stesse condizioni. Io stessa, sia scrivendo questo libro sia in queste settimane di presentazioni, ho tirato fuori ricordi che non pensavo di avere, ma sono comunque ricordi molto sfocati. Alla fine uno ricorda molto con il corpo – questo è un altro insegnamento di Proust – e, quando il tuo corpo cambia a quella velocità, diventa molto difficile tornare a quelle condizioni in cui puoi veramente riprodurre la memoria di quello che è successo.

Da scrittrice adulta, che effetto ti fa descriverla nei tuoi libri?

Oggi che vado nelle scuole, sono molto affascinata dalla possibilità di vedere  come gli adolescenti interagiscono, come si comportano. È vero che è un’età di violenti conformismi, un’età in cui si vuole essere accettati a tutti i costi nel gruppo, ma, in realtà, quando non ci sei dentro, vedi che ogni persona ha il suo modo di stare. 

L’adolescenza è un tema molto presente in letteratura. Come mai?

Sì, ci sono infatti tantissimi adolescenti in letteratura – penso a L’adolescente di Dostoevskij. Credo che tanti scrittori descrivono questa età di passaggio e la rendono molto suggestiva, perché di fatto lo è: è un’età di metamorfosi continua, forse solo paragonabile alla primissima età neonatale, ma è accompagnata da una forma di coscienza. Questa cosa manda fuori di testa, si è un po’ sfasati rispetto ai cambiamenti del proprio corpo. 

Le vicende del romanzo si avvitano l’una all’altra fino ad arrivare all’esplodere della calunnia, che si insinua gradualmente negli spazi della boutique attraverso indizi serpeggianti. Le notizie circolano, tutti ascoltano, riferiscono, rimuginano sopra i fatti. Leggendo il tuo libro, mi è venuto in mente un gioco dell’infanzia, quello del telefono senza fili, che poi si reitera nella società, senza quella veste di divertimento.  Quanto tendiamo a credere a ciò che gli altri ci dicono? E cosa accade alla vox populi nell’epoca dei social? 

Penso che il meccanismo della diffusione di una notizia sia lo stesso ma che oggi sia oliato dai mezzi di cui disponiamo per cui diventa semplicissimo far girare una calunnia, caderci dentro e far arrivare delle voci lontanissime. Nel momento in cui ti dicono una cosa spiacevole, e senza prove, su qualcuno che ti è vicino o che comunque fa parte del tuo orizzonte di conoscenze, se tu quella cosa la ripeti, la riporti a qualcun altro, o se comunque inizi a rimuginarci, ecco che già così stai dando uno spessore e uno spazio alla calunnia perché le stai dando la possibilità di circolare che è ciò di cui essa si nutre. Il problema è che è molto difficile non farlo, perché vuol dire prendere una posizione, avere una fiducia forte in sé stesse.